martedì 31 dicembre 2013

EUROPA, QUESTA (MIS)CONOSCIUTA DAL MANIFESTO

  Inverno, cade la neve e le valanghe, anche le braccia.

  L'editoriale del manifesto di oggi non annuncia nessuna primavera degli intenti: avanti sicuri verso la catastrofe, incuranti degli errori del passato (capiti?), sordi ai richiami della realtà, se non della ragionevolezza.

  Ve lo copio.

  LA TEMPESTA ITALIANA, di Norma Rangeri

  "Dalle urne elet­to­rali ai for­coni in piazza. L’anno che sta­sera viene dige­rito con il tra­di­zio­nale cenone può ben essere con­den­sato in que­sto sim­bo­lico testa­coda degli umori e degli avve­ni­menti che hanno coin­volto i cit­ta­dini italiani.Prima il rito demo­cra­tico con annessa spe­ranza di un’alternativa di governo. Poi l’urlo qua­lun­qui­sta del “tutti a casa” rivolto al Par­la­mento, emblema di un sistema inca­pace di rea­gire alla crisi della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva. In mezzo il grande stra­vol­gi­mento del Pd, l’esplosione del vul­cano gril­lino, la deca­denza e la fram­men­ta­zione della coreo­gra­fia berlusconiana.
  
  Pro­ba­bil­mente, giunti al quinto anno della crisi eco­no­mica, sarebbe stato dif­fi­cile rea­liz­zare final­mente un vero cam­bia­mento, cul­tu­rale, poli­tico, eco­no­mico. Ma si è esa­ge­rato in senso con­tra­rio e siamo andati a passi veloci verso situa­zioni senza uscita, al punto di non essere in grado di eleg­gere un pre­si­dente della Repub­blica nuovo e di non tro­vare alter­na­tive al governo di lar­ghe e poi pic­cole intese.Un “indie­tro tutta” gene­rale. Non solo poli­ti­ca­mente. Social­mente è stato ben rias­sunto da una cop­pia di “capi­tani corag­giosi” del sistema indu­striale ita­liano, Mar­chionne e Riva. Con gli ope­rai Fiom con­fi­nati nei reparti Fiat e gli abi­tanti di una città del sud avve­le­nati dal feu­da­ta­rio dell’acciaieria. Due volti del declas­sa­mento nazio­nale, sia verso i diritti dei lavo­ra­tori sia come esem­pio di arre­tra­tezza del nostro modello di sviluppo.

  E poi un indie­tro tutta per il livello dei con­sumi ali­men­tari, un ine­dito e dram­ma­tico elenco di sui­cidi tra i nuovi poveri, una corsa sfre­nata al record di disoc­cu­pa­zione — gio­vani e donne soprat­tutto — un pri­mato asso­luto per il trat­ta­mento disu­mano riser­vato alla popo­la­zione car­ce­ra­ria e alla gente immi­grata e rifu­giata, una ver­go­gnosa e inde­cente eva­sione fiscale, un impo­ve­ri­mento glo­bale delle fami­glie, un ter­ri­to­rio eco­lo­gi­ca­mente deva­stato, un debito pub­blico pesante come un maci­gno, una società fram­men­tata, divisa, egoista…Difficile tro­vare un paese con un meda­gliere così penoso e umiliante.Certo, il cor­rut­tore della poli­tica ita­liana dell’ultimo ven­ten­nio è stato cac­ciato dal Par­la­mento, è fuori dalle isti­tu­zioni, inter­detto dai pub­blici uffici. Ma la sua ere­dità, soprat­tutto quella dei recenti otto anni su dieci, è deva­stante sotto il pro­filo eco­no­mico, poli­tico, sociale. Quanto è avve­nuto tra il 2012 e l’anno che si sta chiu­dendo (mini­stero Monti prima, ele­zioni poi, governo Letta-Alfano ora) non sono che la con­se­guenza di una tragi-commedia che ha come primi respon­sa­bili Ber­lu­sconi e poi i par­titi che hanno gui­dato il paese dagli anni Novanta del secolo scorso ad oggi.
  E’ vero, le piazze, si sono riem­pite di gente che ancora rea­gi­sce al mal­go­verno, che ancora mostra un desi­de­rio di par­te­ci­pa­zione. Anche nelle forme e nei sog­getti nuovi come nella mani­fe­sta­zione del 15 otto­bre. È vero, l’esplosione del gril­li­smo con­tiene in sé ele­menti inte­res­santi e nuovi, che sicu­ra­mente sareb­bero spen­di­bili con mag­gior pro­fitto se non ci fosse un padre-padrone che detta legge e usa il web come una gogna media­tica. È vero, la vit­to­ria a valanga di Renzi dimo­stra che nel Pd c’è un forte desi­de­rio di vol­tar pagina e di man­dare a casa un vec­chio gruppo diri­gente lar­ga­mente, pro­di­to­ria­mente consociativo.Ma è altret­tanto vasta e pro­fonda l’Italia che ha smesso di cre­dere nella pos­si­bi­lità di cam­biare le cose col­let­ti­va­mente e vor­rebbe tanto affi­darsi all’uomo forte capace di togliere di mezzo gli immi­grati che “rubano il lavoro”, di dare mano libera agli impren­di­tori per usare il lavoro come una merce, di riti­rare l’Italia dall’Europa dei ban­chieri. Un insieme di ingre­dienti per ricette che pur­troppo nel Nove­cento ha pro­dotto immani disa­stri. C’è anche que­sto nell’aria men­tre ci avvi­ci­niamo alle ele­zioni europee.

  Sarà un test poli­tico che dirà quanto sono distanti le due sponde del Medi­ter­ra­neo, quanto saranno forti le cor­renti iso­la­zio­ni­ste, sovra­ni­ste, xeno­fobe del vec­chio Con­ti­nente. Un spec­chio che riflet­terà il grande tra­va­glio di quei paesi che le pri­ma­vere arabe ave­vano riac­ceso di movi­menti laici e demo­cra­tici. Il 2013 è stato un lungo inverno di san­gue per gli egi­ziani, per i tuni­sini, l’anno della guerra afri­cana gui­data dal socia­li­sta Hollande.Dicono che que­sta crisi lascia le mace­rie di un dopo­guerra. Di sicuro la nostra demo­cra­zia non gode di buona salute e in tanti ci stanno pro­met­tendo la cura deci­siva della riforma elet­to­rale e di nuove ele­zioni. Una nuova legge elet­to­rale è neces­sa­ria, e prima andiamo a votare e meglio è. Ma né l’una, né le altre ci rega­le­ranno la sini­stra che non c’è.
Per tor­nare al cen­tro della scena, per offrire pro­po­ste con­vin­centi, la sini­stra ha biso­gno di pro­se­guire il cam­mino sulla via mae­stra indi­cata il 12 otto­bre da Lan­dini e Rodotà nella piazza della demo­cra­zia costi­tu­zio­nale, nella pro­spet­tiva di una “coa­li­zione sociale”. Il segre­ta­rio Fiom fa bene a vedere le carte del nuovo “capo” del Pd, a chie­dere cosa c’è die­tro la sua pro­po­sta di un con­tratto nazio­nale con­tro la pre­ca­rietà. Met­tere in chiaro i con­te­nuti è il per­corso da com­piere per capire se siamo di fronte a mano­vre poli­ti­che di palazzo, a rispet­ta­bili stra­te­gie con­gres­suali (rot­ta­mare il gruppo diri­gente della Cgil dopo quello del Pd), o a uno snodo stra­te­gico degli assetti poli­tici, anche a sinistra.

  Intanto sta­sera il capo dello stato pro­nun­cerà il suo ottavo discorso a reti uni­fi­cate, men­tre sugli schermi della Rete un ex comico lo con­tra­sterà con la richie­sta di un impea­ch­ment, impra­ti­ca­bile secondo Costi­tu­zione, ma ugual­mente effi­cace nella piazza vir­tuale. Napo­li­tano repli­cherà le sue ricette anche se non hanno pro­dotto gli effetti pro­messi. E Grillo con­ti­nuerà a tirare la corda dell’esasperazione popu­li­sta. I son­daggi dicono che sia l’uno che l’altro per­dono con­sensi, anche se con­qui­sta punti l’idea dell’elezione diretta di un super-presidente.Nelle pros­sime set­ti­mane vedremo e capi­remo meglio. Però nono­stante il nero qua­dro di quest’anno tem­pe­stoso, con­ti­nue­remo a lavo­rare per un 2014 di cam­bia­mento o di pas­sag­gio verso il cam­bia­mento. Sarà un anno molto impor­tante anche per noi del mani­fe­sto. Fac­ciamo i migliori auguri a voi che ci leg­gete e ci soste­nete e anche a noi.

  Il pros­simo anno potrà essere dav­vero nuovo per la nostra storia."

  E qui la mia solita risposta, che finché non mi bannano, viene pubblicata in calce all'articolo nella nuova versione on line del quotidiano (almeno una cosa buona!).

  "-Nelle prossime settimane vedremo e capiremo meglio...-"

  Cantava Guccini:-Vedi cara è difficile a spiegare, è difficile capire se non hai capito già...-

  Il mio giornale si avvita sulle descrizioni di passetti tattici, sulle speranze di resipiscenze vane, sulle parole di questo o quel nano politico che non vede oltre il davanzale della finestrina di casa... o se vede è li per non dirci quel che vede.

  Cosa vedo io? Un enorme, colossale errore strategico della sinistra: pensare che un'unione volontaristica a base monetaria avrebbe portato ad un surrogato di internazionalismo proletario in presenza del solito pregnante internazionalismo del capitale.

  Un solo esempio: per far funzionare l'Eurozona come una federazione (più Europa) servirebbero trasferimenti massicci dalla Germania ai PIIGS, dell'ordine dell'8% del PIL tedesco, inaccettabili né per chi dovrebbe erogarli né per chi dovrebbe riceverli perché sarebbero in cambio di ulteriore cessione di sovranità. Per inciso ai bavaresi pesano i trasferimenti ai berlinesi, pensate ai calabresi o ai portoghesi!
Quest'idea di Europa è sbagliata dall'assunto: che esista un popolo europeo quando non esiste nemmeno un popolo tedesco, basta vedere come i wessie hanno trattato gli ossie, senza non solo solidarietà ma nemmeno misericordia (per chi crede).

  Il capitalismo tedesco sta facendo terra bruciata dell'economia dei partner ma anche delle loro istituzioni democratiche, ne è dimostrazione l'inguardabile degrado della nostra struttura di rappresentanza politica (ma anche di quella degli altri Paesi) e non serve incolpare il capo della destra, i capi della "sinistra" non han fatto di meglio, ma hanno avuto una stampa peggiore.

  Qual'è la strada maestra? Liberarsi di mitologie fuorvianti. Ripartire da quello che abbiamo, per ora: una Costituzione che è incompatibile con trattati europei che partano dall'assunto del controllo dell'inflazione a salvaguardia del capitale. La nostra legge fondamentale parte dal lavoro come obiettivo dello stato a salvaguardia della dignità dei cittadini.

  Aver creduto ad un'Europa pacificata per sempre sotto l'egida dei trattati è stata un'ingenuità all'inizio (o ignoranza dei processi elementari dell'economia), ora è colpevole ostinazione."


giovedì 26 dicembre 2013

Il trompe-l'œil

  Abbiamo occhi da cacciatore, vista stereoscopica, memoria fotografica.

  Questo ci aiuta a valutare l'attimo fuggente, il momento in cui scoccare il dardo.

  Altri animali, le prede, valutano meglio il movimento, hanno vista panoramica, alcuni hanno occhi compositi che trasformano il movimento continuo in scatti.

  Questo che c'entra? Il fatto è che la vista non è una cosa "meccanica", tipo telecamera, ma entra nel processo costitutivo delle immagini che è tutto del cervello.

  La nostra mente vede meglio i momenti che i processi. E questo ci frega perché ci pare di vivere in un perenne presente, immutabile e immutato.

  Dice: che ce ne cale il giorno di s. Stefano?

  Dobbiamo sforzarci di vedere l'andamento. Sono almeno tre anni che ci dicono che la ripresa è dietro l'angolo ma tutti gli indicatori economici, dal 2008, continuano ad essere in peggioramento; la nostra economia si sta spappolando, i risparmi consumando, gli investimenti dileguando; in condizioni normali la nostra moneta si deprezzerebbe aiutando l'economia a ripartire tramite esportazioni, invece la moneta (che non è nostra ma comune anche a paesi che stanno crescendo, o decrescendo meno di noi) si rivaluta rispetto a dollaro e yen, mentre i nostri salari si svalutano rispetto al nordeuropa per limitare le importazioni.

  Questo è un processo assolutamente anomalo che non si verifica in nessun altro luogo al mondo, ma a noi, coi nostri occhi mentali senza percezione del movimento, sembra che non possa andare che così, il punto fermo su cui fissiamo l'attenzione è un trompe-l'œil che ci inganna.

  Si chiama euro.

mercoledì 25 dicembre 2013

LA TREGUA

  Aerei persi, poltrone a due piazze, spose e fratelli; in TV la melassa cola appiccicosa. La bontà è d'obbligo.

  Fuori dal sogno è l'incubo di un'algida decomposizione: lavoro che manca, aziende che chiudono, merci estere che chiedono di essere comprate, con denaro straniero che manca...

  I collaborazionisti al governo ci parlano di ripresa: feticcio irraggiungibile in assenza di investimenti pubblici massicci. I tromboni prezzolati cercano di convincerci che non c'è alternativa: il mercato è quella cosa meravigliosa che, in perenne equilibrio, si regola da se; al suo interno ogni merce trova un valore incrociando domanda e offerta.

  Stranamente l'unico bene sottratto a questo millenario equilibrio è quello che, qui in eurozona, serve a denominare il valore delle cose: la moneta. Stando alle regole, ad economia forte dovrebbe corrispondere una moneta forte, da noi forti e deboli hanno lo stesso "passo" ma lunghezza di gambe diverse.

  Ma ci dicono che tutto andrà per il meglio quando avremo riacciuffato la ripresa, per ora incespichiamo rincorrendo una carota in cima ad un palo...

domenica 22 dicembre 2013

Nuovo corso al manifesto?

  Hanno capito che qualcosa non va ma non cosa.


  Di fronte ad un panorama di macerie, di promesse tradite, di tremors minacciosi ci si deve sforzare di capire. Gli aspetti sono tanti, le sensibilità svariate, i ripensamenti dolorosi.

  Nessuno in redazione arriva però alla cosa più semplice, più tecnica e meno politica: se dai a Paesi diversi la stessa moneta aumenti il divario e non lo diminuisci. Gli studi sull'argomento sono tanti e di ogni tendenza, segno che non si tratta di un'opinione, come la legge di gravità non lo è, ma, appunto di una legge economica; che può essere contraddetta a determinate condizioni che sono, queste si, politiche: vanno fatte delle scelte per graduare, mitigare o addirittura invertire quello che NATURALMENTE avverrebbe allo stato brado.

  Se a qualcuno interessa, la letteratura in proposito è ricca, suggerisco come ottima sintesi "Il tramonto dell'euro" di A. Bagnai.

  Ma per farla semplice basta un esempio: come mai ciclisti diversi usano rapporti diversi per fare lo stesso percorso? Perché il cambio è quell'artificio tecnico che STA FRA la forza esercitata dal ciclista, con le sue peculiari caratteristiche biochimiche, e il lavoro da compiere. A nessun direttore tecnico verrebbe in mente di dare alla sua squadra biciclette identiche, sarebbe un suicidio sportivo.

  Ogni Paese ha le sue caratteristiche, sociali, economiche, storiche.

  O li pialliamo.

  O li valorizziamo, ma non con la stessa moneta.

  

  

giovedì 12 dicembre 2013

LETTERA AL MANIFESTO (L'ENNESIMA)

  La transizione è stata traumatica, ancora rimpiango la carta; alla "vecchia"edizione on line mi ero adattato, ora non poter archiviare la copia giornaliera per rileggermela al riparo dalle bizze del mio collegamento ADSL (grazie telecom) mi crea qualche disagio; mi abituerò.

  Ma quello che conta è quello che trovo sul "mio" giornale, sono critico da almeno un anno e ve l'ho scritto più volte, purtroppo non c'è altro da leggere, ma non è il caso di accontentarsi. Siete sovente appiattiti sulla sinistra che c'è, anche se non è più sinistra (p.es. avete seguito la campagna elettorale di Bersani legittimandone un ruolo di leader che non ha), state facendo lo stesso con Renzi, dandogli una dignità politica degna di miglior causa. Il PD non è più un partito "salvabile", nonostante i tentativi di SEL, rendetevene conto e cambiamo pagina. Guardate con sospetto a Grillo e ai 5*, avete ragione, è un movimento composito, in cui convivono delle belle teste (poco influenti) e tante pance da vellicare in attesa di buttare la massa raccolta su una qualche bilancia, il che mi preoccupa molto. Date al sindacato lo spazio canonico senza sottolineare il suo ruolo conservatore di diritti che vanno diventando privilegi. Avete ultimissimamente scoperto le piazze anomale e annusato collegamenti, collusioni, direttive con logiche da questurini più che da sociologi (oggi però Viale mi smentisce, speriamo continui); certo sarebbe "bello" se gli scontenti scendessero in piazza cantando l'Internazionale dietro a rosse bandiere, inneggiando ai gloriosi leader del passato come facemmo noi nei '70 (in ogni caso servimmo a poco); così non è. Hanno perso fiducia nei partiti che da almeno tre decenni non hanno un programma autenticamente "di sinistra" ma si sono limitati a gestire la ritirata. E qui arriviamo al punto: capire che è successo. La nostra parte del mondo, l'Europa, ha rinunciato a Keynes, come il resto del mondo, sulla spinta delle teorie ultraliberiste di von Hayek, confidenzialmente reaganomics. Il capitale nel suo incessante inseguimento del saggio di profitto sta erodendo la base stessa della produzione metropolitana, con annessi salari. Qui da noi il fenomeno è stato realizzato grazie ad un artifizio monetario, l'euro, che ha distrutto l'autonomia del sistema politico che non ha più il controllo delle leve di politica economica essendo state delegate (scippate) altrove. Da qui il grido inquietante "Italia, Italia" delle piazze: il popolo SA che i nostri politici sono inutili, lo sa come sapeva Pasolini in un altro contesto, lui perchè era un intellettuale, i manifestanti perchè vivono il degrado sul loro essere. Cosa dovrebbe fare il "mio" giornale? Spiegarci che riconquistare il predominio della politica sull'economia è la condizione indispensabile per puntare nuovamente al socialismo, che le analisi usate sono rassicuranti ma inutili, che essere comunisti ma non capire le masse è come minimo sterile, che la macroeconomia è uno strumento da conoscere, esattamente come il ciclostile della mia giovinezza o internet di oggi, la macroeconomia ci aiuta a capire che ci sono cose che non possono NON conseguire a determinate premesse, che il potere economico ha determinato "al riparo dal processo elettorale", che ci sono responsabilità ingiustificabili.

  Fate chiarezza, anche a prezzo di dolorose autocritiche, o morremo tutti schiavi.

venerdì 29 novembre 2013

LETTERA AL MANIFESTO

  Ieri ho mandato questa lettera al manifesto, me l'hanno pubblicata con una significativa variazione:

  "Condivido il grido di dolore di Burgio per lo straniamento della nostra lingua e della logica sottostante.

  L'esempio portato, il debito pubblico, mi pare esposto superficialmente: certamente questo è lievitato negli anni '80, certamente si è rivelato un colossale trasferimento di ricchezza dallo stato sociale a quello padronale (mi si passi la neolingua), ma lo strumento con cui si è operato, il divorzio fra Tesoro e Banca d'italia (1981), è stato taciuto.

  Eppure quella decisione di Andreatta e Ciampi fu la condanna a morte del Paese come lo vollero i costituenti e l'inizio dell'attuazione del progetto di Eurozona conformata al pensiero liberista di von Hayek.

  P.s.- quando un bel paginone con Keynes e von Hayek a confronto? mario fiorentino"

Ed ora la versione del giornale:

"Basta autonomia di Bankitalia
Condivido il grido di dolore di Burgio
per lo straniamento della nostra lingua
e della logica sottostante.
L’esempio portato, il debito pubblico,
mi pare esposto superficialmente:
certamente questo è lievitato negli
anni ’80, certamente si è rivelato
un colossale trasferimento di ricchezza
dallo stato sociale a quello padronale
(mi si passi la neolingua), ma
lo strumento con cui si è operato, il
divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia
(1981), è stato taciuto. Eppure quella
decisione di Andreatta e Ciampi
fu la condanna a morte del Paese
come lo vollero i costituenti e l’inizio
dell’attuazione del progetto di Eurozona
conformata al pensiero liberista
di von Hayek.
Mario Fiorentino"

  E' saltato il post scriptum, evidentemente Keynes è indigesto!

giovedì 28 novembre 2013

I SOCIALDEMOCRATICI DELL'SPD E L'INTERNAZIONALISMO PROLETARIO.

  Berlusconi non è più senatore. Non mi è mai piaciuto né come politico, né come essere umano, né come piazzista ma non mi pare il caso di eccedere nei festeggiamenti. Andandosene, coi suoi dossier e le sue televisioni, lascia dietro di se diversi bocconi avvelenati e una pletora di miopi entusiasti i quali credono che da ora in poi tutto sarà più lindo e preciso.

  I suoi storici oppositori, e recenti alleati, con chi se la prenderanno ora se dovesse risalire lo spread? Senza la sentina di tutte le infamie chi si assumerà il compito di distruttore della Patria?

  Un'idea ce l'avrei, è talmente ovvia che credo l'abbiano avuta in molti.

  L'economia va male. Con Berlusconi, Monti o Letta non cambia, va male non perché il capo del governo, chiunque sia, è un incapace, ma perché la politica economica dell'Eurozona è sbilanciata a favore delle caratteristiche e degli interessi nordici. Bersani poteva dire che era colpa del satiro, questi poteva dire che era colpa dei comunisti (che tenerezza!), entrambi erano telecomandati da Francoforte.

  Ora cosa cambia? Letta a chi darà la colpa? A Brunetta? Siamo seri!

  Da ora in poi la colpa sarà dei populisti! Chi sono costoro? Quelli che con sgraziati volteggi abbandonano le usate greppie e si avviano sulla promettente strada dell'euroscetticismo in questo dimostrando, se non pudore, almeno furbizia. Prestigiosi (!) leader della destra si stanno interessando alla teoria economica (fino ad ora erano interessati solo all'importo dei contributi) e vanno scoprendo che l'euro è una mostruosità;  i cittadini è un po' che se ne sono accorti "empiricamente"; loro, i prestigiosi leader, non vogliono farsi trovare impreparati e stanno studiando...

  A dire il vero anche altri stanno studiando, a sinistra, sottotraccia, sfidando l'ostilità dei loro gruppuscoli e partitini che continuano a proporre idee e prassi utili un secolo fa ma oggi ridotte a liturgia. Verranno assimilati ai populisti di cui sopra. Poco importa se i tempi, i modi, i programmi non coincidono: -Sei contro l'Europa? Sei il nemico populista!-

  Che fare? L'Europa sarà sempre li a contenerci tutti, l'Unione europea dovrà essere aggiornata per aderire alle necessità di tutti gli europei, l'euro scomparirà perché contrario agli interessi nostri e degli USA (almeno).
Gli unici a cui l'euro fa comodo sono le élite tedesche, le quali campano sullo sfruttamento dell'ex DDR, degli immigrati e dei partner europei, col beneplacito dei "compagni" dell'SPD.
Chi glielo spiega ai leader della nostra "sinistra" che ancora sperano nell'internazionalismo proletario?

domenica 24 novembre 2013

La repubblica borghese e l'1:12.

  Oggi in Svizzera si vota un referendum che chiede che in qualsiasi azienda, pubblica o privata, operante nel Paese la retribuzione minima non sia inferiore al dodicesimo della massima, tutto compreso, denaro e benefit (quando ero giovane io l'FLM chiedeva l'1:20).

  Non mi risulta che la Svizzera sia particolarmente rivoluzionaria, e allora?

  Da buoni borghesi pragmatici stanno capendo che la divaricazione salariale più che uno schiaffo all'egualitarismo è una bischerata economica.

  Se provassimo a mettere l'1:12 anche nel programma della futura forza anticapitalista (che per ora non si vede) alle elezioni europee?

  Dite che non si quaglierebbe tutta la base di tutti i partiti in circolazione?

  In culo ai cialtroni col megastipendio ed ai loro mandanti!

sabato 16 novembre 2013

INGENUI O MASOCHISTI

  Oggi sul manifesto un articolo di Marco Bascetta, che copio qua sotto, spiegava com'è che gli unici che fanno soldi sono i tedeschi e, in conseguenza di ciò, perché Stati Uniti e il resto d'Europa vorrebbero un cambiamento nella loro politica economica.

  Bascetta invocherebbe un po' di conflittualità nei lavoratori tedeschi, ciò porterebbe ad un aumento dei consumi interni, quindi delle importazioni, quindi delle esportazioni di tutti gli altri partner economici che riequilibrerebbero in tal modo le loro bilance commerciali.

  Il ragionamento è corretto, ma chi la convince la tigre a mollare la gazzella che ha azzannato? Il predominio tedesco è sicuramente frutto della perenne ricerca di "spazio vitale" dei nostri settentrionali vicini, ma anche delle opportunità che gli hanno messo a disposizione Mercato unico ed Eurozona ed in particolare il meccanismo dalla moneta unica.

  Quindi è inutile consigliare un cambiamento nei rapporti di forza fra lavoratori e capitalisti tedeschi, siamo noi che dovremmo rifiutare le regole che ci stanno impoverendo.

  In breve: una moneta unica per paesi diversi è un'ingenuità, se uno dei paesi è la Germania è masochismo.



E così non saremmo liberi di vendere
quanto vogliamo e dove vogliamo se
il mercato ci offre l’opportunità? I nostri
imprenditori dovrebbero autocensurare
il proprio successo? La stampa conservatrice
tedesca reagisce stizzosa alle accuse
di Washington per l’eccesso di surplus della
bilancia commerciale di Berlino e alla
pretesa della Commissione europea di
mettere sotto inchiesta questo stesso fenomeno.
Eppure è sotto gli occhi di tutti lo
squilibrio che la competitività tedesca ha
introdotto nell’eurozona dove la moneta
unica impedisce ai paesi più deboli di difendere
il proprio export con il consueto
strumento della svalutazione e dove le imposizioni
delle politiche di austerità precludono
ogni rafforzamento del mercato interno
senza peraltro riuscire a ridurre il debito
pubblico. Nel frattempo i risparmiatori
tedeschi strepitano contro l’erosione delle
proprie rendite finanziarie, prendendosela
con la Bce che abbassa il costo del denaro,
proprio nel tentativo di correggere lo
squilibrio generato dai dogmi economici
di Berlino. E i «saggi» (disgraziatamente
ognuno ha i suoi), che siedono nell’organismo
consultivo del governo federale per
l’economia, bocciano l’introduzione di
quel salario minimo di 8,50 euro orari che
figura tra i punti più controversi della trattativa
tra Spd e Cdu/Csu per la formazione
di una Grande coalizione. Correrebbe il rischio
di «aumentare la disoccupazione».
È ovvio che nessuno potrebbe imporre
una qualche forma di astinenza all’export
tedesco, di cui gli opinionisti liberali vanno
strepitando, se non usscendo dall’alveo
del «libero mercato». Quel che gli Stati uniti
e l’Europa pretenderebbero dalla Germania
è invece un rafforzamento del mercato
interno e dunque un incremento delle importazioni.
A questo punto converrà fare ricorso a
un piccolo, elementare esercizio di critica
dell’economia politica. La competitività tedesca
è stata prodotta da
un contenimento dei salari
e da un ridimensionamento
dello stato sociale. Con
la parola d’ordine di aggredire
la cosìddetta «disoccupazione
volontaria» la Spd
del cancelliere Schroeder
istituì un mercato del lavoro
di infimo ordine sul quale
i beneficiari del sussidio di disoccupazione
sarebbero stati costretti a vendersi. Nello
stesso tempo sindacati e imprenditori
concordavano una dinamica salariale addomesticata
e decisamente modesta. I
margini di profitto così ottenuti dal contenimento
del costo del lavoro consentivano
di investire in tecnologia e innovazione e
di aumentare quindi la produttività del lavoro,
riducendone ulteriormente il costo.
Marx avrebbe detto che il risparmio di capitale
variabile (il lavoro vivo) si trasformava
in capitale costante (impianti). In conseguenza
le merci tedesche sarebbero diventate
ancora più competitive. Come dimostra
il punto di vista dei «saggi», i capitalisti
tedeschi non hanno alcuna intenzione di
attivare una dinamica salariale, la cui assenza
ha garantito loro enormi profitti e
posizioni di mercato. Neanche se a chiederglielo
è il «capitale complessivo» e cioè
l’Fmi, gli Usa e i paesi europei usciti con le
ossa rotte dalla competizione. Il modello
tedesco ( e non solo quello
) si fonda precisamente sul
fatto che il successo economico
non deve tradursi in
maggiore spesa dei cittadini
e dunque in un elevamento
del tenore di vita,
ma nel rilancio dell’accumulazione
su tutti i piani
possibili. I tedeschi sono
stati costretti a vivere «al di sotto dei propri
mezzi». La Germania, del resto, non fa eccezione
al generale processo di concentrazione
della ricchezza nelle mani di pochi e
di protezione ad ogni costo della rendita finanziaria.
Pensare di poter chiedere una
mano al proprio concorrente è dal punto
di vista del capitalista, una amenità. Pensare
poi di chiederglielo rinunciando a parte
del suo potere di ricatto e di controllo sulla
forza lavoro e sullo sfruttamento della cooperazione
sociale è addirittura una aberrazione.
In bocca ai tecnocrati di Bruxelles la
parola solidarietà suona come una moneta
falsa. L’impasse europea consiste essenzialmente
nel fatto di ricercare un equilibrio
basandosi su una dottrina economica
fondata sullo squilibrio. Illusione condivisa
dal negoziato permanente tra stati sovrani
di diverso peso che caratterizza oggi
la vita stentata dell’Unione.
È difficile immaginare una Commissione
europea che reclami la ripresa della lotta
di classe in Germania. Eppure solo una
forte pressione sociale da parte dei lavoratori
tedeschi, dei precari ultrasfruttati e di
una cittadinanza cui vengono progressivamente
sottratti pezzi di stato sociale potrebbe
conseguire quell’ incremento del
mercato interno nella Repubblica federale
che l’Europa e gli Usa desiderano. Indirettamente,
le critiche che mezzo mondo rivolge
al capitale tedesco e alla sovranità
che lo sostiene al tavolo del negoziato europeo,
potrebbero indurre i cittadini tedeschi
a pretendere finalmente quella vita
«all’altezza dei propri mezzi» che il processo
di accumulazione e il gigantesco apparato
ideologico che lo accompagna ha loro
sottratto fino ad oggi. Come sempre, l’alternativa
è quel nazionalismo che, negando o
soffocando le linee di frattura e i conflitti
che attraversano la società, rivolge all’esterno
la propria aggressività. Che si serva dei
Panzer o del surplus commerciale. Coraggio
compagno Schulz chiami il suo paese
alla lotta di classe!

domenica 10 novembre 2013

Qualità ed ammirazione.

  Ho conosciuto qualche tedesco, erano cordiali e colti, senza le durezze teutoniche che a volte gli attribuiscono,  forse non erano campioni rappresentativi...

  Loro peculiarità è il numero e la disciplina, si sentono parte del miglior meccanismo al mondo, votato al successo in nome delle proprie qualità. Loro dicono: siamo i migliori, assomigliateci! Ma può esistere un mondo di primi della classe? E si può diventare intolleranti ed aggressivi in nome delle proprie qualità?

  Successe un secolo fa, avevano bisogno di spazio per espandere le loro potenzialità, finì male. I loro vincitori li caricarono di debiti di guerra, qualcuno consigliò, inascoltato, di non farlo. Ci riprovarono a metà del secolo scorso. Finì ancora peggio: milioni di morti, distruzioni inenarrabili, la dignità umana ridotta in cenere, l'obbediente tecnica prostituita alla potenza. Questa volta i vincitori, forse ricordando i consigli non seguiti la prima volta, gli abbonarono parte dei debiti ma li divisero.

  Dopo più o meno mezzo secolo ci risiamo, sfruttando le opportunità della storia e le loro indubbie qualità stanno rimettendo alle strette il mondo. Il mondo? Si perché il loro fare mette a rischio non solo noi europei, schiacciati dalla loro intraprendenza, ma anche gli altri due grandi poli economici mondiali, l'occidentale e l'orientale; ma loro, soddisfatti, continuano a dire: fate come noi!

  Eppure hanno avuto grandi pensatori, artisti, filosofi, scienziati. Cosa trasforma questi Jekill in Hyde? Cosa scatena la loro espansione oltre il limite dell'altrui libertà? Sarà possibile mitigarne la brutale intelligenza con la convinzione? Forse no, visto come non ricordano le lezioni della storia; ma nemmeno noi le ricordiamo. Forse siamo tutti l'emblema vivente dell'ottusità umana che spinge ad andare oltre senza sapere dove.

  Che fare? Se ogni pochi decenni non vogliamo ricominciare daccapo dalle rovine, bisognerà adottare un qualche sistema di correzione automatico. Ma prima di tutto sarà meglio diffidare delle loro qualità e della nostra ammirazione.

venerdì 8 novembre 2013

Tonino Perna, 8-11-13

  Lettera inviata al manifesto a commento di un articolo di Tonino Perna.

  "Sintetizzando: Perna pensa che quelli ci hanno governato negli ultimi decenni siano degli incapaci che si sono nascosti dietro le sottane europee accettando di attuare politiche antipopolari. E' vero, ma solo in parte. Ascoltando l'intervista di Monti ad una TV americana traspare non l'ignavia di chi si accoda alle direttive supreme ma la convinzione che la crisi si supera "distruggendo la domanda interna", quindi le importazioni; aumentando le esportazioni; aumentando il saldo primario; tutto ciò in una comune politica europea. Dimenticando di aggiungere che questo è ciò che permette ai finanziatori nordici e domestici di galleggiare sul nostro impoverimento (cosa che Prodi sa benissimo) consentendo loro di rientrare dei prestiti al nostro settore privato fatti negli anni di vacche grasse. In soldoni: tagliare i servizi sociali, aumentare le tasse per pagare gli amici (suoi).  C'è qualcosa di profondamente sbagliato in questo modo di ragionare: che la condizione umana non conti nulla, che il controllo dell'inflazione sia più importante della piena occupazione, che la nostra Repubblica fondata sul lavoro sia un vincolo (tutto torna). Fin qui come la vede la destra. Ma la sinistra? Si è accorta del trappolone celato dietro al "più Europa" che serviva solo per "ricollocare" le risorse a favore del turbocapitalismo boccheggiante? Come intende provvedere? Se non lo farà lei (la sinistra) ci penseranno le Le Pen di ogni paese sfruttato, e ciò non mi tranquillizza: vorrei sapere se fra i rimedi "lepenisti" ci saranno anche la limitazione della circolazione dei capitali e l'indicizzazione dei salari, senza i quali la povertà sarà solo gestita da altre mani. mf"


giovedì 7 novembre 2013

I bachi

  C'è chi pensa che visto che la destra sta vincendo in campo economico la "sinistra" deve inseguirla e superarla sullo stesso terreno.

  Dopo 20 anni di Maastricht, solo un mentecatto può affermare che l'economia vada bene e soprattutto vada bene per i milioni di persone che non siano miliardari, possibilmente tedeschi.

  Solo un collaborazionista può sostenere che ci vuole "piùeuropa". Come! Non vi basta?

  Il risultato è che gli anemici nipoti della prima repubblica e figli della seconda (questa non è la terza ma il IV reich) si affannano a ripetere che nessun altro mondo è possibile.

  C'è una qualche differenza, a parte i libri che hanno in casa e di cui magari si vergognano, fra gli esponenti di questa classe dirigente ambidestra che si sostiene a vicenda fingendo di competere?

  L'emblema di tutto ciò è la coppia più bulla del mondo Di Gregorio&Boccia.

  Qualcuno ritiene che dal cilindro della mediocre flessibilità agli interessi del più forte possa uscire un coniglione feroce che sappia battere i pugni sul tavolo europeo (a rischio di far tintinnare le stoviglie alla casabianca)? E dov'è stato fino ad oggi questo fenomeno di dissimulazione? E ce ne potremo fidare?

  E' Renzi, che per sapere chi è deve consultare la sua carta d'identità?

  O Cuperlo, tutto frangia e distintivo?

  Il medico pietoso fa la piaga verminosa, e qui l'unica cosa che si muove sono i bachi.

lunedì 21 ottobre 2013

La cerniera

  Nei giorni scorsi abbiamo avuto un po' di movimento in piazza.

  La difesa della Costituzione, quella del lavoro e dei beni comuni sono tre segmenti che devono essere unificati dal cardine comune della sovranità popolare (che non è una parolaccia ma un altro modo di dire democrazia).

  La Costituzione viene snaturata dai trattati europei che non perseguono la piena occupazione ma la bassa inflazione; il lavoro è sotto attacco perché se aumentano i disoccupati diminuiscono i salari, aumentano i profitti e diminuisce l'inflazione; i beni comuni vanno privatizzati perché sono occasione di guadagno per il capitale privato, come prescrive il governo europeo autoreferenziale.

  E' evidente anche a un fascista che il nemico è QUESTA Europa, e infatti le destre stanno galoppando; mi chiedo quando sarà evidente anche alle sinistre: loro credono di avere i voti popolari per sempre, perse all'inseguimento dell'internazionalismo proletario quando quello sin qui realizzato e l'internazionalismo finanziario.

  Non hanno capito che gli strumenti di contrasto dell'ultraliberismo sono nazionali (Costituzioni, parlamenti, sindacati, movimenti) e invece di combattere qui si trastullano con in'idea di Europa che hanno solo loro.

sabato 19 ottobre 2013

Par condicio.

  Comincia timidamente a sussurrare, a sinistra, il dibattito sull'uscita dall'euro.

  A destra è un fiume in piena in Francia; un torrentello in Germania; una fogna in Grecia; da noi è un meandro.

  La sinistra all'estero ne parla da mesi o anni, per esempio, in Germania Lafontaine, in Francia Sapir, gente di spessore; da noi qualche professore intollerante alle panzane, affetto da sincerità patologica e indifferente alla convenienza (economica) personale.

  Cari politici (mi vien da ridere) sembrerebbe una consolatoria par condicio: se ne parla di qua, se ne parla di la; uscire da destra, uscire da sinistra, far pagare l'operazione ai privilegiati ed alle loro banche o farla pagare ai succubi col reddito fisso o senza reddito. Sembra diciate "ci stiamo ragionando".

  Il fatto è che finché se ne parla e basta gli effetti perversi dell'euro li pagano i soliti nel solito modo: salari che calano, disoccupazione che aumenta, giovani senza futuro, aziende in crisi; senza contare i tagli ai servizi sociali e pubblici.

  Aspettare Godot non è la risposta ma l'agonia.

  Ma vi ricorderemo nelle nostre invocazioni...

domenica 13 ottobre 2013

Lettera aperta ai reduci di Roma 12-10-2013

  Cari tutti,

oggi, vedendo le foto e leggendo i resoconti degli interventi, mi permetto qualche considerazione non autorizzata (non c'ero e chi non c'è ha sempre torto).

  La coalizzazione sociale dei vincenti è un bello slogan, rispecchia anche una parte di verità (referendum acqua) ma è teoria: la vittoria in quel caso è stata simbolica e affossata con metodi surrettizi da chi ci governa per conto d'altri.

  La difesa della Costituzione è un'estrema trincea, quasi un ritorno ab ovo, della vita democratica di questo Paese, ma non basta: la Carta non è uno strumento formidabile, è solo la registrazione del momento più alto della civiltà politica nazionale; da quando esiste è stata oggetto di forzature striscianti e omissioni bipartisan, certamente accentuatesi nel recente passato. Da quando?

  Da quando le regole della civile convivenza sono state sottratte al "contratto sociale" fra cittadini per essere, direi proditoriamente, attribuite ad un'entità superiore e sfuggente: il mercato. Perché proditoriamente? Perché i passi necessari a questo slittamento sono stati felpati e progressivi ma non decisi dalla base elettorale. E' stato un percorso coerente di svuotamento dei meccanismi democratici a vantaggio della visione "aziendale" dello stato: pura contabilità finanziaria a danno dell'interesse sociale. Tanto poi, quando la misura è colma, i guadagni sono stati fatti e, anche se si contano distruzioni e lutti, le ricostruzioni sono PIL.

  E la Costituzione? In questo quadro è la vittima, non il baluardo. Se vogliamo invertire il percorso la dobbiamo tenere come riferimento ma il motore dev'essere un altro. Antecedente temporalmente e logicamente.

  Il motore dev'essere la riconquista della sovranità popolare (alias democrazia) sui temi economici e sociali, non perché lo afferma la Carta, e basterebbe, ma perché è disumano che l'essere umano conti meno dello spread, che sanità e scuola siano merci, che chi produce lo faccia nell'assenza di un progetto nazionale condiviso, che l'informazione sia veleno.

  Dobbiamo ripercorrere a ritroso la strada sin qui fatta, individuare i passi falsi, per noi, e correggerli: verificare, con l'esperienza maturata nell'ultimo quindicennio in Eurozona ma da decenni nella letteratura scientifica economica, la bontà delle decisioni prese; individuare i responsabili della sottrazione di capacità decisionale degli organismi elettivi e allontanarli; rielaborare una politica economica funzionale al benessere sociale, in armonia coi Paesi vicini ma in autonomia.

  Quindi ben venga la comune trincea costituzionale, ma il programma è molto più ambizioso.

 

mercoledì 2 ottobre 2013

  Lettera ad un presidente rinato.

  Caro Giorgio, ti chiamo così perché potresti essere il mio babbo, ed è un complimento.
  Nel lontano 1978, il 13 dicembre, facesti alla Camera, come dichiarazione di voto del tuo partito di allora, il PCI, un discorso chiaro e profetico sui danni che il Sistema Monetario Europeo (SME) avrebbe arrecato all'Italia. Le previsioni negative si sono realizzate, in peggio, con l'euro.
  Capisco che da allora tante cose sono cambiate: è finita la guerra fredda col suo corollario di terrorismo (non ho mai creduto che le bombe da piazza Fontana a Bologna le abbiano volute solo dei mentecatti criminali fascisti); è caduta l'URSS lasciando il tuo partito orfano; c'è stata mani pulite con l'opportunità di ereditare un sistema paese da una classe screditata ma attenta agli interessi nazionali (o forse screditata PERCHE' attenta).
  Oggi sei il deus ex machina di questa sgangherata e marcescente Italia, hai come unico obbiettivo il permanere, ad ogni costo, nel sistema di patti leonini che ci strangola e asservisce, quasi che al di fuori dell'Eurozona ci sia il nulla.
  Fuori ci sono l'Inghilterra, la Svezia, la Polonia, la Svizzera, solo per citare quattro Paesi che sono molto diversi fra di loro ma che stanno meglio di noi, Fuori ci sono Paesi sovrani come il Giappone che pur con debito pubblico imponente non conoscono il nostro tasso di disoccupazione (o forse non lo conoscono PERCHE' ce l'hanno).
 Quindi mi domando, come Totò in una famosa
 gag, vediamo dove vuoi arrivare, la differenza è che tu stai sacrificando gli italiani ed io sono italiano.

martedì 1 ottobre 2013

La solitudine della moltitudine.

  Sono solo, e con me sono soli milioni di italiani. Soli davanti ad un futuro estinto.
  Viviamo una vita postuma.
  I partiti eredi delle gloriose tradizioni dimenticate si arrabattano spacciando per decisioni strategiche patetiche furbate per tirare domani.
  Il PDL, guidato da un pregiudicato che non vuole rinunciare nemmeno al titolo di cavaliere, che non gli spetterebbe più, mostra senza imbarazzo le sue rumorose peristalsi: il boss, perso l'onore non vuole rinunciare al potere, gli accoliti, quasi orfani, oscillano fra l'affidamento e il riformatorio. Eppure l'ex cav. qualcosa di buono nella sua animalesca visione della società l'ha fatta: si è accorto, all'avanguardia fra i politici, che la crisi non passa se non cambia l'Eurozona, che l'aumento delle tasse per soddisfare i diktat francofortesi sono il piombo nelle ali dell'economia nazionale, e per questo ha pagato con il siluro del 2011.     Colpito e affondato, ma si sa certi oggetti galleggiano...
  Il M5* sta ancora crescendo, è ai denti da latte, noi aspettiamo pazienti che mettano quelli del giudizio, il Paese ha meno tempo; hanno ragione da vendere non volendosi mischiare con le mosche cocchiere della politica, ma chi non fa, non falla; i suoi elettori sono pieni di rabbia e di indignazione, il problema è trasformare tutto ciò in un progetto stabile, non in proclami truci che cambiano obbiettivo ogni giorno.
  Il PD, oltre che un acronimo blasfemo, è il nulla. In trent'anni è riuscito a dilapidare il capitale affidatogli da milioni di cittadini di sinistra, alcuni dei quali ancora oggi si ostinano a crederlo un partito di sinistra, è passato attraverso abiure e fusioni fredde al solo fine di continuare ad occupare l'emiciclo e le ex municipalizzate, prima in nome dei soviet, ora della BCE. Nessun progetto, nessun coraggio, nessuna fantasia. Solo immobile tensione, mi ricorda un coniglio davanti a un crotalo, che parla tedesco.
  Io e gli altri milioni a chi dovremmo affidarci? Ai tre sfigati qui sopra? A continui e sistematicamente abortiti progetti "progressisti"? Appesantiti da un personale politico usurato se non compromesso, e poi per fare cosa? La maggior parte dei leader, chiamiamoli così, non ha idea del perché la crisi si avvita, molti cercano le risposte rivisitando le liturgie di un secolo e mezzo fa. Le soluzioni individuali e violente non contano, almeno finché restano individuali.
  Aspettiamo che la casa finisca di bruciare al rallentatore, un'idea di come ricostruirla, io e qualche altro milione di italiani, ce l'avremmo, ma siamo bloccati da quest'ingorgo istituzional-affaristico-giudiziario.
  Non volendo sperare in un Napoleone, non sia mai che ci porti a estinguerci nella steppa, ci auguriamo almeno un Sansone.
  Calata la polvere potremo ricominciare (come abbiamo sempre fatto).  

domenica 22 settembre 2013

La bici del tedesco.

Considerazioni ciclistiche...

Con la bella stagione capita di trovare gruppi di ciclisti che pedalano impegnati. Tutine policrome, polpacci depilati, biciclette tecnologiche, tutti in fila come squadre di professionisti, prestanti e omogenei per età e fisico.
Sopraggiungendo in macchina ho notato che ognuno ha una pedalata per conto suo: vanno alla stessa velocità, fanno la stessa strada, ma c'è chi pedala un po' più velocemente e chi più lentamente. Usano rapporti del cambio diversi e questo consente a ogni ciclista di sfruttare al meglio le sue caratteristiche fisiche e biochimiche adeguandole al percorso.

Rapporti del cambio!

Come i rapporti di cambio fra le monete!

Per adeguare il loro valore alle caratteristiche diverse da Paese a Paese!

Per fare insieme la stessa strada mantenendo ognuno il suo passo!

Cazzo!! Vorrei sapere chi è quell'imbecille che mi ha dato la bici di un tedesco!

sabato 14 settembre 2013

Ingroia, alzati e cammina.

Dopo l'assemblea di Landini e Rodotà dell'8 settembre 2013, Ingroia sul manifesto accusa ricevuta.
Il commento è d'obbligo (gli voglio bene, anche se mi sento un amante tradito).

Bravo Ingroia! Fa autocritica sul rovescio di RC e richiama all'unità i delusi del recente e remoto passato, come me. Purtroppo si ripropone coi limiti di qualche mese fa: individua giustamente nella difesa della Costituzione l'ultima trincea per difendere la nostra democrazia, riconosce altri movimenti con lo stesso  intento e auspica un cammino comune senza leaderismi o prevaricazioni. Tutto bene? No, chi, marxiano, keynesiano o liberaldemocratico, oggi si batte per un ritorno al potere del popolo, cioè democrazia, cioè sovranità popolare, lo fa avendo ben presente che l'ostacolo è l'esproprio di rappresentanza, legislazione e governo che l'Unione europea, cresciuta deforme e mostruosa ai soli fini della salvaguardia del capitale e del profitto, ha realizzato, con il concorso, magari obtorto collo, delle (ex)sinistre moderate. I Trattati europei sono incompatibili con le Costituzioni nazionali perché ne sono il superamento in chiave ultraliberista. Logica vorrebbe che il primo irrinunciabile passo per modificare (rivoluzionare) l'esistente fosse l'espianto del cancro che ci divora: l'unità monetaria, braccio armato dell'Unione europea, e cominciare a dibatterne senza infingimenti. 70 anni fa, nel CLN, democratici di ogni estrazione (con pesi diversi) si unirono per combattere il nemico comune, lo stesso deve avvenire ora. Dopo, a guerra vinta, potremo anche perdonare e riammettere i collaborazionisti a funzioni esecutive: Oggi chi è con la Costituzione della Repubblica Italiana non può essere con Maastricht e Lisbona.

martedì 10 settembre 2013

Ma l'euro è una questione da ragionieri o da politici?

Sabato scorso, 8 settembre, C'è stata a Roma un'assemblea per "attuare la Costituzione, non cambiarla". Bene.
Lo stesso giorno il manifesto ha pubblicato un intervento di Angelo d’Orsi, lo copio.

La chance di una ripartenza
COMMENTO - ANGELO D'ORSI

Siamo di nuovo qui, alla ricerca della sinistra perduta. Anime volonterose tentano di suggerire rimedi e proporre rilanci dopo la caduta: l'ennesima. Volti noti, perlopiù, dirigenti o ex dirigenti dei partiti, intellettuali d'area, ai quali di tanto in tanto si aggiunge qualche figura nuova. Sintetizzando rozzamente, le proposte in campo sono tre. Ritentare di rimettere insieme i cocci, partendo dall'asse Prc-Pdci. Puntare sulla scissione del Pd, recuperando la sua anima «di sinistra».
Realizzare un rassemblement democratico in nome della difesa della Costituzione e della legalità. Riprovare con i movimenti, partendo dai bisogni reali, dai "territori", dalla richiesta di partecipazione, ricuperando "lo spirito dei referendum". La fluidità della situazione sociale, nel precipitare di una crisi di cui non si intravvede la fine, forse perché la fine sarebbe il venir meno di un'arma letale nelle mani del padronato e delle classi dirigenti. La crisi è il pretesto formidabile per imprimere una drastica accelerazione all'azione avviata da tempo, a livello internazionale, di riduzione del sistema di protezione delle fasce deboli della popolazione, che chiamiamo anglofonicamente welfare state . E l'Europa - entità presentata come frutto di una più avanzata democrazia sovranazionale, il sogno dei Rossi e degli Spinelli e così via, ma in realtà, come ben sappiamo, una congregazione di banchieri che disegna un progetto di rinnovato dominio di oligarchie a livello continentale - l'Europa una promessa trasformatasi in minaccia è divenuta l'alibi altrettanto forte per giustificare qualsiasi efferatezza sociale. «È l'Europa che ce lo chiede», accanto agli "impegni internazionali", i "vincoli delle alleanze", ha portato a teorizzazioni come «meglio sbagliare in compagnia che avere ragione da soli», che stanno giustificando mostruosità come il progetto Tav, il Muos, l'acquisto degli F35 e così via. Sempre più, i governi sovranazionali, nazionali e locali - senza apprezzabile differenza fra centrodestra e centrosinistra (ci sarà pure qualche riflessione da fare non puramente nominalistica al riguardo) - si stanno rivelando l'espressione di una concezione politica che potremmo definire alla Botero: no, non Fernando, il pittore contemporaneo, ma Giovan Battista, il teorico italiano del XVI secolo, che nell'opera Della ragion di Stato , aveva definito lo Stato «dominio fermo sui popoli». Ecco, noi stiamo smarrendo l'essenza, il senso e le ragioni della democrazia, e di nuovo, la distanza tra gli schieramenti politici, in Italia, in particolare, si è talmente assottigliata da diventare pressoché invisibile. Le "larghe intese", con il loro grottesco contorno politico e mediatico, ne sono l'estrinsecazione. Possibile che il presidente della Repubblica proceda, con ammirevole coerenza, a uno smantellamento sistematico della legalità istituzionale, e trovi incoraggiamento nei grandi organi di stampa? Possibile che in nome della stabilità - che, naturalmente, ci chiedono "i mercati finanziari" (ah, lo spread !) - dobbiamo accettare una postdemocrazia che sta diventando ex democrazia? Ma non c'è in Italia, addirittura al governo del paese, come di innumerevoli enti territoriali, e di istituzioni finanziarie, culturali, politiche, un partito che si chiama "democratico"? E torniamo al Pd, dunque. I conti con questo imponente rudere della storia vanno fatti non tra un anno ma ora. Subito. Il problema si riassume nel quesito: il Pd vuole ammettere che la sua stessa fondazione è stata una forzatura storica? Non è possibile ricuperare certo l'identità di partito nato dal Pci, ma è possibile, e credo necessario, che la parte più sensibile e intelligente della dirigenza, se opportunamente sospinta dalla base (ma dov'è finito Occupy Pd?), faccia una autocritica e provi a far una marcia indietro, che sarebbe la sola vera marcia in avanti. Occorrerebbe una rottura epocale, però. E personalmente la vedo come una possibilità assai remota, quand'anche si verificasse una scissione. È ormai avvenuta una triste mutazione genetica, in seno al partito, e la nuova generazione dei T-Q appare assai peggiore della precedente. I rottamatori appaiono solo più cinici dei rottamandi. E che la speranza del rinnovamento sia legata al mero tratto generazionale - un discorso che richiama la parte più becera del messaggio politico di Beppe Grillo - appare penosa. D'altro canto, il rilancio della sempre reclamata e fallita (anche quando realizzata sul piano formale) unità a sinistra, dopo l'ultima prova elettorale non sembra avere prospettive di respiro, anche quando . Che cosa rimane? Forse la chance maggiore di tentare una ennesima ripartenza risiede nell'effettivo superamento della forma partito, nella rinuncia alle identità politiche, e nello sforzo di uscire dallo stesso recinto del "popolo di sinistra": il popolo dei referendum, quello di "Se non ora quando?", i piemontesi e i siciliani automobilitati contro le devastazioni ambientali decise da chi neppure li ha consultati, i pastori sardi presi a manganellate dalle forze dell'ordine, i comitati spontanei che sorgono ogni settimana qua e là per la penisola per altrettante piccole ma buone cause, i cassintegrati e gli esodati, gli immigrati di cui una opinione pubblica assopita accetta la riduzione in schiavitù... Costoro rappresentano un bacino politico assai più ampio, al quale occorre parlare con un linguaggio diretto, estraneo agli alchimismi della politica professionale, capace di intercettare i loro bisogni, sollecitandoli a porre domande, prima di dare ricette che non rispondano veramente alle necessità di cui quelle domande sono espressione. Occorre forse una politica dal basso, diffusa, e soprattutto trasparente. L'esperienza fallimentare di Rivoluzione civile deve insegnarci qualcosa: tutto quello che fu fatto per mettere su quel baraccone grottesco (che pure all'inizio ho sostenuto, anche se ho pubblicamente messo in guardia dai rischi, che puntualmente si sono materializzati diventando la spiegazione della catastrofe) va preso a modello e rovesciato. Si può tentare di costruire un blocco sociale, ma senza demiurghi, senza tavole segrete che decidano mentre pubblicamente si parla di democrazia, raccogliendo le istanze delle varie realtà locali, sociali, intellettuali. Disegnando un programma politico, ai diversi livelli, solo sulla base di una discussione larga e partecipata: la democrazia prima di essere un ideale deve essere una pratica. Solo su tali basi si potrà dar vita a una pur indispensabile leadership. Tutto il resto mi sembra destinato a fallire. Ancora una volta.

L'ennesimo grido di dolore.

Come al solito si vede la gabbia in cui siamo, se ne vede la porta, ma si ignora serratura e chiave... e allora ho mandato l'ennesima lettera che sorprendentemente mi hanno pubblicato oggi:

 I poveri chi li rappresenta?
Ho molto apprezzato l'intervento di Angelo d'Orsi sulla sinistra perduta, anch'io, come lui, ho votato Ingroia esprimendo però riserve sulla pochezza del suo programma di politica economica. Lo slittamento dell'Europa dal sogno di Rossi e Spinelli all'incubo Bce, indicato da d'Orsi, pone il tema principale all'attenzione. C'è una cosa che unisce tutti i soggetti e i movimenti richiamati: sono vittime del massiccio trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale operato negli ultimi decenni grazie alla progressiva cessione degli strumenti di politica economica e fiscale a favore del progetto europeo, e qui anche i migliori sono prigionieri del maledetto equivoco: Europa=Unione europea=euro. A sinistra siamo capaci di scannarci sull'interpretazione di una pagina scritta un secolo e mezzo fa ma non riusciamo ad individuare l'aguzzino che oggi ci massacra: non è l'Europa, che c'è sempre stata, né l'Unione che è un progetto di integrazione perfettibile e condivisibile, il problema, da scindere ed analizzare a parte, è la moneta unica, individuata da decenni come fonte di problemi, nelle condizioni presenti, ma voluta pervicacemente da chi ci guadagna: i ricchi e i Paesi ricchi, ed ottusamente da chi ci perde: i poveri e chi li rappresenta. Il popolo lo sente; la destra si attrezza a cavalcare il malcontento; la sinistra, credendo la cosa questione da ragionieri e non da politici, si dibatte fra sintomi e rimedi senza aver ancora individuato la malattia. mf

Ritornando al tema iniziale. Io a Roma non c'ero, dai resoconti parziali mi pare che la questione principale sia stata: -non vogliamo fare un nuovo partito, ma un movimento d'opinione- partendo dalla Costituzione. Bene.

La Costituzione viene sistematicamente e progressivamente stravolta dalle imposizioni che ci vengono dai tecnocrati di Bruxelles e Francoforte, è questo il succo del -celochiedel'Europa- perché in essa sono scolpiti dei principi di salvaguardia sociale ed economica incompatibili con la visione ultraliberista vigente nell'impeuro. Lo strumento basilare e pratico per imporre questo dominio è la moneta unica, se non si parte da li le grida di dolore continueranno a disperdersi nel deserto dell'impotenza.


martedì 27 agosto 2013

Truffaldino il servitore di due padroni.

Il nostro è uno strano Paese ricco di cultura e di storia, come terra di conquista  ha sviluppato l'istinto alla sopravvivenza, l'essere stati contesi fra potenze ostili ci ha fatti scettici ed opportunisti, per necessità più che per progetto.
Dopo la guerra ci siamo ritrovati ad essere il marciapiede fra due botteghe contrapposte che sostenevano i rispettivi commessi affinché convincessero i passanti a servirsi di una delle due.
La concorrenza ci ha favorito portandoci, in tre decenni, ad un grado di benessere mai raggiunto, ovviamente nulla era regalato: ogni conquista era per la bottega di fronte una rinuncia, preferibile però al fallimento dell'esercizio.
Nel frattempo l'Europa cambiava: dal confino di Ventotene Rossi e Spinelli (1941-1944) scrissero Il Manifesto per un'Europa libera e unita, poi arrivarono: CECA (1951), EURATOM e CEE (1957), MEC (1968), il serpentone (1972), SME e prime elezione europee (1979), caduta del muro di Berlino (1989), Maastricht (1992), l'euro (1999-2002), Lisbona (2009), MES (2012).
Frattanto le acque si intorbidivano. Piazza Fontana (1969), Gioia Tauro (1970), Peteano (1972), questura di Milano  (1973), Piazza della Loggia e Italicus (1974), Bologna (1980). Nel mezzo ci si misero anche fascisti e brigatisti a mantenere il pentolone in ebollizione.
A mano a mano che aumentava l'integrazione, e scoppiavano i botti, i proclami roboanti si stemperavano in politiche "responsabili", i principi morali irrinunciabili cedevano al realismo. I segnali esplosivi ricordavano perentoriamente che eravamo pur sempre un marciapiede, non una bottega.
Una vetrina s'è infranta al cadere del muro ma la commedia è proseguita.
Da qui in poi una sola bottega: i commessi disoccupati han cercato un nuovo impiego, senza ripudiare il primo: formalmente l'obbiettivo era ancora convincere i passanti promettendo benessere e lavoro, ma dovevano dimostrare ai nuovi padroni di essere affidabili... gli esami non finiscono mai... e da qui in poi i transfughi diventano figure patetiche.
Sarà stata la lunga stagione della pacata responsabilità, gli agi ottenuti lontano dalle rigidità ideali, la scarsa propensione a mettere alla prova il proprio coraggio fisico, insomma l'istinto di sopravvivenza, ma mentre i neofiti blateravano di pace e progresso dissimulando la silenziosa ferocia dell'omologazione, altrove si lavorava lucidamente per azzerare i risultati di lotte che erano il riflesso di ben altri scontri.
Oggi l'Europa è ancora li come continente; l'Unione europea è diventata la matrigna integralista che conosciamo; l'euro la frusta che ci sferza.
Oggi i servitori della nostra storia, quelli che hanno servito due padroni, infiacchiti dai loro privilegi non sanno come dirci che sono stati usati: spaventati dai botti, comprati dalle briciole.
Dobbiamo esprimere una nuova classe dirigente libera da servitù pregresse, che riparta dalla contraddizione fra lavoro e capitale; che risponda a chi la elegge; che non abbia da perdere vantaggi e che ci consenta di riconquistare i nostri diritti; abbiamo ancora una Costituzione; una memoria, alcuni; qualche strumento statale formalmente democratico, sempre meno; abbiamo la possibilità di capire cosa ci hanno fatto; abbiamo sempre più fame.
E' stato possibile una volta, si può rifare, non per ammansirci ma perché è l'unico modo per non finire massacrati.
Il giochino si è rotto.
Capirlo dovrebbe essere dovere e piacere di ogni cittadino. 



sabato 24 agosto 2013

Argentina (cry for me...)

Copio un articolo da manifesto di oggi, l'interesse intorno ai problemi macroeconomici si accentua, purché in polemica con Frenkel e Bagnai...

Un keynesismo forte fa respirare l'Argentina
ARTICOLO - *ROBERTO LAMPA E ALEJANDRO FIORITO

Il Pil si assesta a un +6%, la disoccupazione scende dal 25 al 7%, la distribuzione del reddito è in costante miglioramento. E senza l'arma della svalutazione del peso
Agitata a mo' di spauracchio dai sostenitori ad oltranza dell'austerità targata Unione europea o incensata come paradigma da imitare dal grillismo più radicale, l'Argentina occupa ormai uno spazio indiscusso nel dibattito politico italiano: «Faremo la fine dell'Argentina » o «Bisogna fare come l'Argentina » sono diventati così due aforismi, ricorrenti e perfino abusati, nella discussione sulla crisi economica in corso. Simili giudizi sono finora restati ad un livello d'analisi estremamente superficiale, scontando per di più l'utilizzo di lenti deformanti "primo-mondiste" con le quali sovente si tenta di osservare il complesso, e talvolta contraddittorio, continente latinoamericano, piegandolo alla stringente attualità nostrana. Tuttavia, una volta inquadrato nella sua specificità, il caso argentino può effettivamente contenere alcune indicazioni cruciali per il dibattito sullo stato (comatoso) dell'economia italiana ed europea. Riteniamo utile partire dai freddi numeri. Tra il 2003 ed il 2011, il Pil argentino è cresciuto in media del 7,6% annuale; nel 2012 ha subito un rallentamento attestandosi al +1,9% (complice l'improvvisa crescita zero della "locomotiva regionale" Brasile, ma anche un brusco freno alla spesa pubblica) ed infine quest'anno si va assestando ad un +6%. Vale la pena sottolineare che, come osservato da Mark Weisbrot ed altri, la crescita argentina fino al 2011 è stata la più rapida e corposa del mondo occidentale contemporaneo. Una simile, impetuosa, crescita economica ha ovviamente implicato una forte generazione di posti di lavoro ed una drastica riduzione della disoccupazione, passata dal 25% all'attuale 7,3% nel periodo in esame (con gli ultimi indicatori trimestrali che indicano un'ulteriore contrazione). Ma, cosa ben più interessante, è stata accompagnata da un costante miglioramento della distribuzione dei redditi: l'indice di Gini (il cui alto valore indica un'alta disuguaglianza) si è infatti progressivamente ridotto fino all'attuale 0,372. Un traguardo straordinario, se paragonato al resto della regione latinoamericana: in Brasile l'indice di Gini è addirittura pari a 0,52. Simili risultati sono stati essenzialmente il frutto di una politica economica interventista e fortemente orientata all'espansione della domanda domestica, le cui chiavi sono state la politica fiscale (accompagnata da una politica monetaria accomodante, implementata da una banca centrale non più indipendente ) ed i molti trasferimenti erogati a vantaggio delle classi medio-basse. Inoltre, la tradizionale vicinanza dei governi peronisti alle centrali sindacali argentine ha prodotto una politica salariale che ha permesso ai lavoratori di tenere il passo dell'inflazione: nonostante quest'ultima sia stimata tra il 20 ed il 25%, attualmente la crescita del salario per il 2013 è prevista attorno al 25,3% (con punte del 31,2% nel settore privato), non pregiudicando il potere d'acquisto dei settori popolari. Proprio questa logica ha ispirato l'ostinato rifiuto dei governi Kirchner di svalutare il peso argentino. Non va infatti dimenticato che nei paesi in via di sviluppo gli effetti di una svalutazione sono fortemente regressivi sul piano della distribuzione dei redditi, perché, da un lato, è maggiore la quantità di beni di consumo ed investimento importati e, dall'altro, è più forte il rischio di un effetto trascinamento dei prezzi internazionali sui prezzi domestici. A fugare ogni dubbio, andrebbe sempre ricordato che proprio l'improvvida svalutazione del bolivar a due mesi dalle elezioni è stata all'origine dell'emorragia di voti nei settori popolari che è quasi costata la vittoria a Nicolas Maduro in Venezuela, sebbene questo dettaglio sembra essere sfuggito a molti osservatori del primo mondo. In questo senso, non appare convincente la spiegazione di quegli economisti (ad esempio, Bagnai e Frenkel) che individuano nel tasso di cambio competitivo la chiave della crescita argentina, accettando la tesi ortodossa di Rodrik relativa all'esistenza di una correlazione positiva tra il tasso di cambio e la crescita economica. Negli anni più bui della crisi globale in corso, ad es. il 2010-11, il peso argentino era infatti tornato a livelli di apprezzamento simili a quelli degli anni della convertibilità col dollaro, eppure il Pil argentino raggiungeva i picchi più alti di crescita (+9,2% nel 2010 e +8,9% nel 2011) ed il prodotto industriale cresceva ancora di più (+9,8% nel 2010 e +11,0% nel 2011). Semmai, appare plausibile il contrario: i dati sembrano indicare che la chiave dell'espansione economica argentina risiede nel forte keynesismo che ha ispirato l'azione dei suoi governi, accompagnato da un certo grado di protezionismo e allo sforzo crescente per creare uno spazio di manovra sufficiente per la politica economica, iniziato con il cruciale processo di dis-indebitamento e sganciamento dai prestiti del Fmi, che imponevano draconiane politiche di austerità. In un simile contesto, la svalutazione avrebbe effetti senz'altro regressivi ed opposti a quelli auspicati dalle autorità economiche. Né del resto sarebbero scontati i suoi effetti sui volumi del commercio estero, come ampiamente documentato nella letteratura economica argentina (ad es. Berrettoni e Castresana, 2008). Ovviamente, non vanno sottaciute le difficoltà di questo paese e le sfide che in futuro dovrà affrontare. In particolare, va rilevato che almeno una parte della nefasta eredità neoliberale degli anni '90 è ancora presente, sotto forma di un'eccessiva dipendenza dell'economia nazionale dalle importazioni e dal capitale transnazionale, specie nei settori chiave dei beni di equipaggiamento durevoli e dell'energia: tra il 2003 ed il 2011, le importazioni sono cresciute in media del 16,6% annuale mentre le esportazioni soltanto del 6,3% annuale. Ciò ha determinato un deficit nelle partite correnti, accompagnato però da un saldo delle merci ampiamente positivo. Più che evidenziare un problema di competitività, ciò è potenzialmente in grado di riprodurre un paradosso, in passato noto come ciclo di stop and go : la forte crescita del Pil innesca un'impennata delle importazioni (maggiore della crescita delle esportazioni) che genera un crescente disequilibrio di conto corrente della bilancia dei pagamenti. Per arrestare questo fenomeno si ricorre a una svalutazione, che, dato il contesto di crescita, fa schizzare l'inflazione fuori controllo, peggiora la distribuzione, raffredda l'economia e annulla gli effetti della crescita economica precedente, condannando il paese a un perenne sottosviluppo. Così come non va dimenticata l'assenza di statistiche attendibili sull'inflazione ed una certa timidezza del governo nazionale nel prendere atto delle origini di natura distributiva di questo fenomeno (che si è manifestato con forza a partire dal 2009, anno in cui il salario reale è tornato ai livelli precedenti la crisi e non è invece dovuto all'eccesso di spesa pubblica, come ad esempio argomentano Frenkel e Bagnai) e ad intervenire con un'adeguata politica dei redditi e di controllo dei capitali. Pur tuttavia, ciò che a nostro avviso merita di essere evidenziato è che mentre l'Unione europea annaspa ostaggio del pensiero economico ortodosso e delle ricette neo-liberali propugnate dalle istituzioni internazionali, proprio il Keynes meno addomesticato e l'eterodossia economica strutturalista hanno invece trovato ospitalità nei palazzi di governo dell'economia argentina. Basti ricordare, a mo' di esempio, il recente obbligo per le banche e le assicurazioni di destinare il 5% dei depositi ad investimenti produttivi in settori strategici stabiliti dal Sottosegretariato alla Pianificazione (!): ciò che in Italia farebbe gridare al regime bolscevico, sembra ancora in grado di garantire all'Argentina una crescita economica di tutto rispetto, nonostante la pessima congiuntura internazionale ed alcuni nodi irrisolti. Se ne accorgeranno il governo e gli addetti ai lavori italiani? *Roberto Lampa (Universidad de Buenos Aires) e Alejandro Fiorito (Universidad Nacional de Lujan)

mercoledì 21 agosto 2013

Il massacro continua.

Stralcio di un articolo di Patrizio Gonnella di Antigone:

Tra l’1 agosto 2012 e il 31 luglio 2013 le persone decedute
a seguito di un incidente stradale sono
state 1.987. Le persone assassinate volontariamente
nello stesso arco di tempo nel nostro
Paese sono state 505. Un dato basso rispetto
alla media europea. Nella sola città di
New York nel 2012 gli omicidi sono stati 414,
anch’essi a loro volta talmente pochi rispetto
alla tradizione newyorkese da far esultare il
sindaco Bloomberg. Si pensi che nella città
americana gli omicidi nel 2009 erano stati
ben 1.420. In Italia quindi si muore molto di
più per incidente stradale che non per omicidio.
I dati forniti dal Viminale segnano il minimo
storico di omicidi da oltre quarant’anni a
questa parte. Se oggi gli omicidi volontari sono
poco più di 500 l’anno, va rammentato
che sono stati 2.927 nel 1948, 2.380 nel 1951,
1.610 nel 1.961, 1.497 nel 1.971, 2.453 nel
1.981, 1.901 nel 1.991 e 771 nel 2001. 102 sono
stati gli omicidi commessi in ambito familiare.
65 di questi sono stati compiuti dal partner
o dall’ex partner. I restanti 37 sono stati
commessi da altro familiare.
Complessivamente 75 sono stati i cosiddetti
femminicidi. Secondo i dati Eures sarebbe
un numero, anche questo, tra i più bassi di
Europa.

C'è un'evidente divergenza fra i fatti, drammatici, e il rilievo che i media e la politica ne danno.
Il governo sa benissimo che i suoi provvedimenti non servono a nulla per combattere la crisi, questa non è altro che un gigantesco trasferimento di ricchezza dal lavoro al profitto, che ha accettato di realizzare per conto del potere finanziario. L'esecutivo sembra dibattersi stretto da un inestricabile nodo gordiano, in pratica la rotta è tracciata ed accettata, non resta che agitare lo spauracchio di turno: allo scopo servono i femminicidi, l'aviaria, la mucca pazza, gli zingari e i rumeni. E' una tecnica consolidata, descritta da Naomi Klein nel suo -Shock economy-.
In pratica, se vuoi ottenere dal pubblico (non dai cittadini che dovrebbero essere consapevoli) cose impopolari, prima deve essere adeguatamente spaventato, allarmato, confuso. In tal modo accoglierà le misure di chi comanda come dei rimedi sicuri e non si accorgerà de essere stati raggirato.
Potrebbe essere che il piano sia proprio questo: portare la situazione ad un punto tale che il popolo consumatore, percosso ed attonito, invochi l'uomo della provvidenza, l'Alessandro di turno, che recida il nodo... insieme a quel che resta delle nostre democrazia, Costituzione, sovranità.

lunedì 19 agosto 2013

Egitto, libro e moschetto.

C'è maretta a sinistra circa la posizione da prendere sui recenti fatti egiziani.
Da una parte quelli che difendono Morsi perché ha vinto le elezioni, benché con una minoranza di elettori; dall'altra quelli che, ostili al potere religioso, plaudono all'intervento dell'esercito.
Quando fra due posizioni di destra: da una parte il Libro dall'altra il moschetto, si aprono accese contese su quale sia quella giusta, significa che la sinistra ha cessato la sua funzione propulsiva (dove l'ho già sentita?).
Vuol dire che ha smarrito la bussola creatrice di senso, del senso di marcia. Vuol dire che s'è impaniata girando su se stessa.
Oppure, semplicemente, questa non è più sinistra. 

sabato 17 agosto 2013

Revelli

Com'è che anche quelli bravi non si accorgono della dimensione del problema?
A commento di un articolo apparso sul manifesto .

Revelli incolpa i dirigenti dei due maggiori partiti di governo  del disastro in cui ci troviamo. Analisi ovvia e solo più articolata ed elegante dell'invettiva contro la casta di Grillo. Naturalmente ha ragione, ma tacere una parte della verità è come mentire. In lui non vedo il quadro d'insieme: critica i piloti e non si accorge che la rotta l'hanno fissata altri. Sono disponibili decine di studi che illustrano i parametri economici dei paesi europei e TUTTI ci dicono che è quest'Europa eurocentrica che non funziona. Non per ignavia o disonestà dei governanti; ma perché una gigantesca lotta di classe, che la sinistra sta perdendo finché non ne prenderà atto, imperversa in Eurozona; essa è stata pianificata e realizzata dalle élite finanziarie, subita o accettata, con controparte, dai nostri, come dagli altri, politici. Sta distruggendo la base democratica della convivenza di un continente. A fronte di tale disastro, occuparsi dei problemi del Dott. Berlusconi è come preoccuparsi di un callo quando si ha una gamba rotta. Passiamo oltre: l'Eurozona non è riformabile, i Paesi core non lo possono permettere, ma la fine dei Paesi periferici trascinerà anche loro nel disastro (le esportazioni tedesche sono per il 50% verso l'Unione europea). Quindi Revelli guardi oltre: la questione non è Renzi vs Letta, infima, ma quella, determinante, Costituzione vs Trattati europei. mf

mercoledì 14 agosto 2013

Il manifesto, ancora lui.

Nell'ultimo post preannunciavo che la mia lettera a commento di un articolo di Marco Rovelli non sarebbe stata pubblicata, mi sbagliavo.
La cosa mi rallegra, ma non è vanità: forse qualcosa sta cambiando nella linea del giornale. Come al solito, necessita una premessa.
Nel luglio dell'anno scorso, stanco per una posizione reticente se non fuorviante sulle cause della crisi, in occasione di un articolo di Burgio, mandai la lettera che ricopio:

  "Caro manifesto, sono abbonato da anni, piccolissimo azionista e lettore dall'inizio. Ultimamente però mi ritrovo sempre meno nel giornale: in pratica gli strumenti per capire il momento drammatico, ma prevedibile, in cui viviamo li ho trovati altrove. La nostra vulnerabilità in questa crisi dipende dalle scelte deliberate di chi ci ha ficcato, tacendocene i rischi, in un puzzle europeo in cui tutte le tessere devono essere uguali, e per chi ha qualche spigolo irriducibile ci sono le cesoie. Non mi appassiona il sogno vendoliano, non mi entusiasma la saga valsusina, non mi coinvolgono le meditazioni bertinottiane; in tutto ciò c'è un sottofondo sottaciuto: il nemico è quest'€uropa, da (quasi) tutti promossa e promessa come panacea, anche da chi dovrebbe difendere i miei interessi e non acconciarsi a quelli di un capitalismo ferocemente cieco.
L'articolo odierno di Burgio qualcosa dice ma gli anni bui del cavaliere sono stati possibili anche grazie all'abbassamento della guardia e dell'intransigenza di una sinistra famelica e amorale.
Comprendo le difficolta pratiche che limitano le vostre possibilità di approfondimento ed analisi ma sento che c'è altro: una sorta di sudditanza verso chi ha il potere di vita o di morte economica. O chiamiamolo ricatto, fuori dai denti. La storia ha strangolato altri fogli (Lotta Continua, Il QdL, Liberazione), siete rimasti solo voi ma non mi state dando, da troppo tempo, ciò che mi serve.
Oggi, da pensionato, privarmi di una cifra per me considerevole per difendere una trincea affettiva più che effettiva, mi pesa e anche voi, per il vostro passato, non meritereste di comparire nella voce -aiuti- anzichè in quella -investimenti- ma tant'è.
Abbiamo tempo sei mesi per decidere se continuare o smettere, vi auguro di ritrovare l'incisività e l'acutezza di altre stagioni, io spero di potermi ricredere, buon lavoro. m f"


L'incisività e l'acutezza non sono state trovate, nel frattempo il manifesto fece campagna elettorale per una salvifica SEL che non salvò il PD da una vittoria ingloriosa.
In questo anno qualche articolo di tema economico è stato pubblicato ed io ho mandato le mie letteracce sempre più spazientite per l'apparente stolidità delle posizioni. Ultimamente però qualcosa di più interessante si trova, recente esempio un anticipo da le Monde Diplomatique. Significa che anche in via Bargoni si comincia a pensare che l'euro sia la forma odierna della lotta di classe, che stiamo perdendo, in Europa? Se così fosse me ne rallegro e rimengo sintonizzato per misurare con quanto ritardo cambia la rotta al ruotare del timone (scogli in vista!).

 

lunedì 12 agosto 2013

Articolo di Marco Rovelli sul manifesto del 10-08-2013. Segue mia lettera al manifesto, che non pubblicheranno...

"SE NON ORA MAI PIU'

È giunto il momento di creare un nuovo soggetto politico, reticolare e libertario, che riparta dai movimenti e metta al centro dell’azione i beni comuni e i diritti.

Da mesi mi chiedo come sia possibile che nessuno, in questo frangente, prenda l’iniziativa per ricostruire
una sinistra che non c’è. Nelle ultime due settimane ho letto con piacere una serie di interventi che sembrano preannunciare la ripresa di un’iniziativa. Ma adesso occorre agire. Che cosa stiamo aspettando? Siamo in
una crisi radicale, senza più alcuna rappresentanza, con milioni di persone che non si riconoscono più in nulla e in nessuno, che hanno fame di una prospettiva altra da quella che ogni giorno abbiamo davanti agli occhi e sottopelle. E invece stiamo qui a baloccarci con le armi sterili della critica senza passare, non dico alla critica delle armi letteralmente intese, ma a quella forza materiale che sola può abbattere la forza materiale. Lo scorso anno ero stato coinvolto nell’esperienza di Cambiare si può, e avevo raccolto l’appello con entusiasmo, vedendolo come un’opportunità per ridar vita dalle fondamenta a un aggregato di forze e movimenti in forme inedite e all’altezza delle sfide presenti. Quell’esperienza venne suicidata, dalla famelica voracità dei partiti che credevano di salvarsi con l’accozzaglia verticistica della lista Ingroia, che venne, provvidenzialmente e giustamente, punita. Cambiare si può era nata troppo a ridosso delle elezioni per poter efficacemente svolgere un processo costituente e reggere l’impatto delle macchine partitiche che decisero, prima ancora dell’assemblea del 22 dicembre di Roma, in disprezzo di qualsiasi decantato e incantatorio meccanismo dal basso, di prendere il controllo e spartirsi le candidature. Ma adesso il tempo ci sarebbe. Abbiamo praterie sconfinate da solcare, e sono un’opportunità epocale. Solo che se manca l’iniziativa, quelle praterie non sono che uno sterile deserto. Ci sono milioni di persone, in questo momento, che hanno fame, e bisogno, di un nuovo soggetto politico, ma nuovo davvero, che sappia mettere in rete le loro istanze di politica. E hanno fame e bisogno di un soggetto di sinistra (se è vero che sinistra è un
concetto inestricabile da, e fondativo della, società moderna: dove sinistra – se andiamo a fare archeologia del concetto all’altezza della Rivoluzione francese - significa fondamentalmente universalità dei diritti e uguaglianza non solo formale ma anche sostanziale), ma appunto una sinistra da ripensare radicalmente: i soggetti politici tradizionali sono defunti, e ogni accanimento terapeutico non servirà, sarà anzi il prolungamento di un’agonia. Per l’epoca nuova, come già scrissi a suo tempo, è necessario un soggetto aperto, dal basso, che si confronti con le istanze della democrazia diretta, che sia strumento della democrazia
partecipativa, di una diffusa partecipazione dal basso. Un’esperienza che riparta dalla realtà dei movimenti, superando l’equivoco della "società civile" (presa in una fondativa complementarità con lo Stato) come luogo della salvezza contro la politica come luogo della corruzione: superare, insomma, il divario abissale tra rappresentanti e rappresentati. Ciò che, per quanto affrettatamente e magari confusamente, Cambiare si può proponeva non era – come venne invece a volte inteso dai militanti dei partiti - contrapporre i rappresentanti di una fantomatica società civile intesa come non-partitica ai militanti dei partiti. Era, piuttosto, introdurre un nuovo concetto, indispensabile per attuare una vera democrazia partecipativa: quello delle storie personali, delle biografie. Chi può e deve rappresentare le istanze politiche dei territori se non coloro che dei processi in corso nei territori stessi sono l’espressione diretta? E qui non c’entra la tessera di partito o l’adesione a un’associazione. C’entra la qualità della persona, il suo essere espressione reale, e non solo ideale, di realissime dinamiche, processi, lotte, conflitti. Non si tratta di chiedersi che tessera ha in tasca qualcuno, ma chi/che cosa rappresenta, quale istanza/bisogno del territorio, con quale lotta è in connessione e di quale processo si fa portatore… In questo senso, allora, saranno le biografie, le storie personali, a diventare la carta d’identità complessiva del movimento, fuori da ogni leaderismo e verticismo. Solo a partire da qui si può realizzare la democrazia partecipativa. È necessario un soggetto reticolare e non identitario, fondato sulle pratiche, dove – per detournare Marx – il fare preceda l’essere. Finale di partito, dice come è noto Marco Revelli. Dire "partito" significa dire un soggetto finalizzato al momento elettorale e all’occupazione delle cariche pubbliche dei suoi militanti (si confronti la classica definizione di Anthony Downs: «Una compagine
di persone che cercano di ottenere il controllo dell’apparato governativo a seguito di regolari elezioni»). Oggi bisogna rovesciare questa piramide, e ridare vita, di fatto, a una pratica libertaria: una pratica reticolare, dove è la partecipazione dal basso a dar forma al movimento e non viceversa, dove le dinamiche del movimento (nonché il suo "personale politico") siano l’espressione dei processi reali del territorio. Un movimento che non sia finalizzato al momento elettorale, ma dove esso sia uno dei momenti di un processo più ampio di risocializzazione del territorio, dei territori, anche dal punto di vista di quella che Ulrich Beck chiama «subpolitica». L’esperienza del movimento No Tav, io credo, ci sta davanti a segnare una strada, a tracciare un cammino. Il movimento No-Tav non è una bandierina da sventolare, ma un movimento inclusivo da praticare. Insomma, si tratta di procedere a una vera e propria rivoluzione copernicana. Solo così può rinascere un soggetto collettivo che sappia mettere al centro del discorso politico il tema dei beni comuni, che ripensi un nuovo legame sociale basato senza tentennamenti sull’inclusione e sull’universalità dei diritti, che sappia contrastare l’ideologia e la pratica dei poteri forti globali, quell’intreccio inestricabile tra classe politica, finanziaria ed economica che costituisce il nerbo del finanzcapitalismo. C’è bisogno dunque di un soggetto che comprenda il trapasso epocale che c’è stato: il resto è sopravvivenza post-mortem. Tutto questo è necessario farlo subito, adesso. Io chiedo a tutte e tutti coloro che erano in Cambiare si può, a tutte e tutti coloro che si sentono e sono parte attiva della sinistra sociale, dei movimenti: che cosa stiamo aspettando? Vogliamo o no ripartire? Vogliamo restare a guardare la catastrofe che si sta compiendo sotto ai nostri occhi? Vogliamo restare alla finestra aspettando che passi il cadavere del nemico, quando invece i cadaveri che passeranno saranno quelli maciullati dal rullo compressore del finanzcapitalismo? Davvero la nostra delusione e il nostro scoramento sono arrivati a livelli così insopportabili?

Leggo con partecipazione il grido di dolore di Marco Rovelli. Seguo il suo consiglio e provo a pensare in cosa potrei essere utile, dopo una vita di militanza a sinistra, ad una nuova sinistra. Cosa hanno fatto i partiti eredi della tradizione operaia per gli operai in senso lato di oggi? Hanno tenuto in piedi una tradizione, una liturgia, delle parole d'ordine legate ad una realtà eroica del passato, ma utili oggi? Sono convinto che il momento attuale sia una novità non leggibile solo attraverso l'esperienza del passato, certo il capitale è sempre il capitale e i salariati sempre i salariati pur nelle diverse declinazioni delle nomenclature. Oggi l'esproprio di democrazia, sovranità popolare, autodeterminazione si fonda su un unico assioma: lo vuole l'Europa, a questo moloch abbiamo delegato il nostro futuro e i mezzi per governarlo. La sinistra moderata ha visto nell'occupazione dello stato l'unica leva per mitigare lo strapotere del capitale facendosene il servitore moderato, quella radicale ha visto nell'internazionalismo dei subalterni la trincea per contrastare il capitale sovranazionale. Con quale risultato? Nulla! Per far franare la prigione che ci opprime si deve rimuoverne la chiave di volta: la moneta unica, che è un metodo di governo e l'unica cosa che tenga per ora unito questo guazzabuglio di sfruttamento, menzogne, velleità, opportunismo e stupidità che ci vincola. Basta studiarsi un po' di economia, non i modaioli televisivi, ma quei Nobel che decenni fa sapevano ed ora sono stati rimossi. Io lo so, mi guardo intorno e vedo qualche isolato consapevole diviso fra lo sconforto e l'indignazione, il resto è "praterie sconfinate da solcare", praterie popolate da inconsapevoli ignoranti coccolati amorevolmente nella loro ignoranza dalla taroccata informazione mainstream. In sintesi, Marco Rovelli ne capisce di macroeconomia?
m. f.

venerdì 9 agosto 2013

Il Fondo monetario suggerisce al governo spagnolo di ridurre i salari del 10%, così facendo, dice, si favorirebbe l'occupazione.
In un periodo di recessione, quale stiamo vivendo, l'economia ristagna non perché manchino le merci, ma perché mancano i soldi per comprarle, se abbassiamo ulteriormente il monte salari la situazione peggiora,.
Ovviamente qualcuno che ci guadagna c'è: l'industria nazionale prevalentemente esportatrice ne avrebbe un vantaggio, ed anche il settore turistico potrebbe offrire prezzi ridotti. I colpiti sarebbero solo i lavoratori.
La prospettiva continua ad essere quella di sacrificare chi lavora per mantenere competitiva una macchina economica a misura di capitale.
Questo sistema ha una razionalità senza ragione: una miriade di operatori economici perfettamente razionali, ammesso che esistano, non fanno un sistema razionale. Se fra le variabili non si mettono anche i bisogni umani e i diritti sociali, di regressione in regressione ritorneremo alla schiavitù.
Anzi, per alcuni aspetti la schiavitù era meglio: il padrone non aveva interesse a eliminare il suo capitale umano, se non gli serviva poteva venderlo ma doveva mantenerlo in buono stato, non gettarlo fuori dalla produzione come si fa oggi con gli "esuberi".

mercoledì 7 agosto 2013

Parole senza significato

Parole che hanno smarrito il significato.
Cosa vuol dire oggi esere di sinistra? Originariamente significava stare dalla parte di chi vende il suo lavoro e contro chi questo lavoro lo compra.
Ma oggi?
Premessa: ci è rimasto solo un foglio alternativo, il quotidiano comunista (così recita la testatina tuttora presente). Ha appoggiato Bersani in modo imbarazzante, si è appiattito su Vendola che manco il thermogène, si è votato ai destini dell'eurozona che nemmeno un integralista. Da almeno due anni c'è chi gli va dicendo che hanno sbagliato film e cinema ma loro duri: l'Europa è il futuro irrinunciabile, ed hanno ragione, peccato che abbiano confuso Europa con Unione europea con Euro.
Da qualche mese vanno ospitando delle voci critiche, la tecnica del cerchio e della botte probabilmente. Il flop del PD e la riproposizione in salsa Alf-letta di Monti e la sua gelida manina ha forse fatto suonare qualche allarme.
L'ultimo contributo fuori dal coro viene dalla Francia: dopo una premessa condivisibile, propone una soluzione che andrebbe discussa. La contraddizione insanabile è che bisognerebbe applicarla CON la Germania che, come premesso, non ha nessuna intenzione di rinunciare ai vantaggi della moneta unica.
Conclusione?
Il giornale il giorno dopo serve ad incartare il pesce (Pintor).
Forse anche il giorno prima.
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Una moneta comune per uscire dall'euro
ARTICOLO - Frédéric Lordon

Già oggi in Europa le stesse banconote non hanno più lo stesso valore che hanno in Grecia o in Germania. È cominciata forse l'esplosione della moneta unica? Di fronte a uno scenario di caos è possibile costruire un'uscita dall'euro concertata e ben organizzata
Molti, specialmente a sinistra, continuano a credere che l'euro verrà modificato. Che passeremo dall'attuale euro austeritario a un euro finalmente rinnovato, progressista e sociale. Questo non succederà. Basta pensare all'assenza di qualsiasi leva politica nell'attuale immobilismo dell'unione monetaria europea per farsene una prima ragione. Ma questa impossibilità poggia soprattutto su un argomento molto più forte, che può essere espresso con un sillogismo.
Premessa maggiore: l'attuale euro è il risultato di una costruzione che, anche intenzionalmente, ha avuto come effetto quello di dare tutte le soddisfazioni possibili ai mercati dei capitali e strutturare la loro ingerenza sulle politiche economiche europee. Premessa minore: qualsiasi progetto di trasformazione significativa dell'euro è ipso facto un progetto di smantellamento del potere dei mercati finanziari e di espulsione degli investitori internazionali dal campo dell'elaborazione delle politiche pubbliche. Ergo, conclusioni: 1) i mercati non lasceranno mai che si concepisca, sotto i loro occhi, un progetto la cui finalità evidente è quella di sottrarre loro il potere disciplinare; 2) appena un siffatto progetto cominciasse ad acquisire un briciolo di consistenza politica e qualche probabilità di essere attuato, si scatenerebbero una speculazione e una crisi di mercato acuta che non lascerebbero il tempo di istituzionalizzare una costruzione monetaria alternativa, e il solo esito possibile, a caldo, sarebbe il ritorno alle monete nazionali.
A quella sinistra «che ancora ci crede», non resta che scegliere tra l'impotenza indefinita... oppure l'avvento di quel che pretende di voler evitare (il ritorno alle monete nazionali), non appena il suo progetto di trasformazione dell'euro cominciasse a esser preso sul serio! Bisogna poi chiarire cosa intendiamo in questa sede per «la sinistra»: certamente non il Partito socialista (Ps) in Francia, che oramai con la sinistra intrattiene esclusivamente rapporti di inerzia nominale, né la massa indifferenziata degli europeisti, che, silenziosa o beata per due decenni, scopre solo ora le tare del suo oggetto prediletto e realizza, con sgomento, che potrebbe andare in frantumi. Ma un così lungo periodo di beato torpore intellettuale non si recupera in un batter d'occhio. E così, la corsa alle ancore di salvezza è cominciata con la dolcezza di un risveglio in piena notte, in un miscuglio di leggero panico e totale impreparazione.
Contro la moneta unica
In verità, le scarne idee a cui l'europeismo aggrappa le sue ultime speranze sono diventate parole vuote: titoli di stato europeo (o eurobond), «governo economico», o ancora meglio il «balzo in avanti democratico» di François Hollande - Angela Merkel, sentiamo fin da qui l'inno alla gioia -, soluzioni deboli per un pensiero degno della corazzata Potëmkin che, non avendo mai voluto approfondire nulla, rischia di non capire mai niente. Può darsi, d'altronde, che si tratti non tanto di comprendere quanto di ammettere. Ammettere finalmente la singolarità della costruzione europea, che è stata una gigantesca operazione di sottrazione politica.
Ma cosa c'era da sottrarre esattamente? Né più né meno che la sovranità popolare. La sinistra di destra, diventata come per caso europeista forsennata, si riconosce, tra l'altro, per come le si drizzano i capelli in testa quando sente la parola sovranità, immediatamente ridotta a «ismo»: sovranismo. La cosa strana è che a questa «sinistra qua» non viene in mente neanche per un attimo che «sovranità», intesa innanzi tutto come sovranità del popolo, è semplicemente un altro termine per indicare la democrazia stessa. Non è che, dicendo «democrazia» queste persone hanno tutt'altra cosa in testa?
In una sorta di confessione involontaria, in ogni caso, il rifiuto della sovranità equivale a un rifiuto della democrazia in Europa. Il «ripiegamento nazionale» diventa allora lo spauracchio destinato a far dimenticare questa piccola mancanza. Si fa un gran clamore per un Front national al 25%, ma senza mai chiedersi se questa percentuale - che in effetti è allarmante! - non ha per caso qualcosa a che fare, addirittura molto a che fare, con la distruzione della sovranità, non intesa come esaltazione mistica della nazione, ma come capacità dei popoli di determinare il loro destino.
Cosa resta infatti di questa capacità in una costruzione che ha scelto deliberatamente di neutralizzare, per via costituzionale, le politiche economiche - di bilancio e monetarie - sottomettendole a delle regole di condotta automatica iscritte nei trattati? I difensori del «sì» al Trattato costituzionale europeo (Tce) del 2005 avevano finto di non vedere che l'argomento principale del «no» risiedeva nella parte III, certo acquisita dopo Maastricht (1992), Amsterdam (1997) e Nizza (2001), ma che ripeteva attraverso tutte queste conferme, lo scandalo intrinseco della sottrazione delle politiche pubbliche al criterio fondamentale della democrazia: l'esigenza di rimessa in gioco e di reversibilità permanenti.
Perché non c'è più niente da rimettere in gioco, neanche da rimettere in discussione, quando si è scelto di scrivere tutto e una volta per tutte in dei trattati inamovibili. Politica monetaria, uso dello strumento budgetario, livello di indebitamento pubblico, forme di finanziamento del deficit: tutte queste leve fondamentali sono state scolpite nel marmo.
Come si potrebbe discutere del livello di inflazione desiderato quando quest'ultimo è stato affidato a una Banca centrale indipendente e tagliata fuori da tutto? Come si potrebbe decidere una politica budgetaria quando il suo saldo strutturale è predeterminato («pareggio di bilancio») ed è fissato un tetto per il suo saldo corrente? Come decidere se ripudiare un debito quando gli Stati possono finanziarsi solo sui mercati di capitali?
Lungi dal fornire la benché minima risposta a queste domande, anzi, con l'approvazione implicita che danno a questo stato di cose costituzionale, le trovate da concorso per le migliori invenzioni europeiste sono votate a passare sistematicamente accanto al nocciolo del problema.
La bolla di sapone
Ci si domanda così quale senso potrebbe avere l'idea di «governo economico» dell'eurozona, questa bolla di sapone, che il Ps propone, quando non c'è proprio più niente da governare, dal momento che tutta la materia governabile è stata sottratta a qualsiasi processo decisionale per essere blindata in dei trattati.
(...)
Come semplice esercizio intellettuale, ammettiamo pure l'ipotesi di una democrazia federale europea in piena regola, con un potere legislativo europeo degno di questo nome, ovviamente bicamerale, dotato di tutte le sue prerogative, eletto a suffragio universale, come l'esecutivo europeo (di cui comunque non si prevede quale forma potrebbe prendere). La domanda che si porrebbe a tutti coloro che sognano così di «cambiare l'Europa per superare la crisi» sarebbe la seguente: riescono a immaginare la Germania che si piega alla legge della maggioranza europea se per caso il Parlamento sovrano decidesse di riprendere in mano la Banca centrale, di rendere possibile un finanziamento monetario degli Stati o il superamento del tetto del deficit di bilancio?
Dato il carattere generale dell'argomento, aggiungeremo che la risposta - ovviamente negativa - sarebbe la stessa, in questo caso lo speriamo!, se questa stessa legge della maggioranza europea imponesse alla Francia la privatizzazione integrale della Sicurezza sociale. A proposito, chissà come avrebbero reagito gli altri paesi se la Francia avesse imposto all'Europa la propria forma di protezione sociale, come la Germania ha fatto con l'ordine monetario, e se, come quest'ultima, ne avesse fatto una condizione imprescindibile...
Bisognerà dunque che gli architetti del federalismo finiscano per accorgersi che le istituzioni formali della democrazia non esauriscono affatto il concetto, e che non c'è democrazia vivente, né possibile, senza uno sfondo di sentimenti collettivi, unico capace di far acconsentire le minoranze alla legge della maggioranza; poiché in fin dei conti, la democrazia è questo: la deliberazione più la legge della maggioranza. Ma questo è proprio il genere di cose che gli alti funzionari - o gli economisti - sprovvisti di qualsiasi cultura politica, e che però formano l'essenziale della rappresentanza politica nazionale ed europea, sono incapaci di vedere. Questa povertà intellettuale ci porta regolarmente ad avere questi mostri istituzionali che ignorano il principio di sovranità, e il «balzo in avanti democratico» si annuncia già incapace di comprendere come questo comune sentire democratico sia una condizione essenziale e di come sia difficile soddisfarla in un contesto plurinazionale.
Il controllo dei capitali
Una volta ricordato che il ritorno alle monete nazionali permetterebbe di soddisfare questa condizione, ed è tecnicamente praticabile, basta che sia accompagnato da alcune semplici misure ad hoc (in particolare il controllo sui capitali) e saremo in grado di non abbandonare completamente l'idea di fare qualcosa in Europa.
Non una moneta unica, poiché questa presuppone una costruzione politica autentica, per il momento fuori dalla nostra portata. Ma una moneta comune, questo sarebbe fattibile! Tanto più che gli argomenti validi a sostegno di una forma di europeizzazione restano, a patto ovviamente che gli inconvenienti non superino i vantaggi...
L'equilibrio si ritrova se, invece di una moneta unica, si pensa a una moneta comune, ossia un euro dotato di rappresentanti nazionali: degli euro-franchi, delle euro-pesetas, ecc. Immaginiamo questo nuovo contesto in cui le denominazioni nazionali dell'euro non sono direttamente convertibili verso l'esterno (in dollari, yuan, ecc.) né tra loro. Tutte le convertibilità, esterne e interne, passano per una nuova Banca centrale europea, che funge in qualche modo da ufficio cambi, ma è privata di ogni potere di politica monetaria. Quest'ultimo è restituito a delle banche centrali nazionali e saranno i governi a decidere se riprendere il controllo su di esse o meno.
La convertibilità esterna, riservata all'euro, si effettua classicamente sui mercati di cambio internazionali, quindi a tassi fluttuanti, ma attraverso la Banca centrale europea (Bce), che è il solo organismo delegato per conto degli agenti (pubblici e privati) europei. Di contro, la convertibilità interna, quella dei rappresentanti nazionali dell'euro tra loro, si effettua solo allo sportello della Bce, e a delle parità fisse, decise a livello politico.
Ci sbarazziamo così dei mercati di cambio intraeuropei, che erano il focolaio di crisi monetarie ricorrenti all'epoca del Sistema monetario europeo, e al tempo stesso siamo protetti dai mercati di cambio extraeuropei per l'intermediario del nuovo euro. E' questa doppia caratteristica che fa la forza della moneta comune.
* L'economista Frédéric Lordon è autore di «La crise de trop. Reconstruction d'un monde failli», Fayard, 2009.
Traduzione di Francesca Rodriguez, copyright Le Monde diplomatique /il manifesto