sabato 16 novembre 2013

INGENUI O MASOCHISTI

  Oggi sul manifesto un articolo di Marco Bascetta, che copio qua sotto, spiegava com'è che gli unici che fanno soldi sono i tedeschi e, in conseguenza di ciò, perché Stati Uniti e il resto d'Europa vorrebbero un cambiamento nella loro politica economica.

  Bascetta invocherebbe un po' di conflittualità nei lavoratori tedeschi, ciò porterebbe ad un aumento dei consumi interni, quindi delle importazioni, quindi delle esportazioni di tutti gli altri partner economici che riequilibrerebbero in tal modo le loro bilance commerciali.

  Il ragionamento è corretto, ma chi la convince la tigre a mollare la gazzella che ha azzannato? Il predominio tedesco è sicuramente frutto della perenne ricerca di "spazio vitale" dei nostri settentrionali vicini, ma anche delle opportunità che gli hanno messo a disposizione Mercato unico ed Eurozona ed in particolare il meccanismo dalla moneta unica.

  Quindi è inutile consigliare un cambiamento nei rapporti di forza fra lavoratori e capitalisti tedeschi, siamo noi che dovremmo rifiutare le regole che ci stanno impoverendo.

  In breve: una moneta unica per paesi diversi è un'ingenuità, se uno dei paesi è la Germania è masochismo.



E così non saremmo liberi di vendere
quanto vogliamo e dove vogliamo se
il mercato ci offre l’opportunità? I nostri
imprenditori dovrebbero autocensurare
il proprio successo? La stampa conservatrice
tedesca reagisce stizzosa alle accuse
di Washington per l’eccesso di surplus della
bilancia commerciale di Berlino e alla
pretesa della Commissione europea di
mettere sotto inchiesta questo stesso fenomeno.
Eppure è sotto gli occhi di tutti lo
squilibrio che la competitività tedesca ha
introdotto nell’eurozona dove la moneta
unica impedisce ai paesi più deboli di difendere
il proprio export con il consueto
strumento della svalutazione e dove le imposizioni
delle politiche di austerità precludono
ogni rafforzamento del mercato interno
senza peraltro riuscire a ridurre il debito
pubblico. Nel frattempo i risparmiatori
tedeschi strepitano contro l’erosione delle
proprie rendite finanziarie, prendendosela
con la Bce che abbassa il costo del denaro,
proprio nel tentativo di correggere lo
squilibrio generato dai dogmi economici
di Berlino. E i «saggi» (disgraziatamente
ognuno ha i suoi), che siedono nell’organismo
consultivo del governo federale per
l’economia, bocciano l’introduzione di
quel salario minimo di 8,50 euro orari che
figura tra i punti più controversi della trattativa
tra Spd e Cdu/Csu per la formazione
di una Grande coalizione. Correrebbe il rischio
di «aumentare la disoccupazione».
È ovvio che nessuno potrebbe imporre
una qualche forma di astinenza all’export
tedesco, di cui gli opinionisti liberali vanno
strepitando, se non usscendo dall’alveo
del «libero mercato». Quel che gli Stati uniti
e l’Europa pretenderebbero dalla Germania
è invece un rafforzamento del mercato
interno e dunque un incremento delle importazioni.
A questo punto converrà fare ricorso a
un piccolo, elementare esercizio di critica
dell’economia politica. La competitività tedesca
è stata prodotta da
un contenimento dei salari
e da un ridimensionamento
dello stato sociale. Con
la parola d’ordine di aggredire
la cosìddetta «disoccupazione
volontaria» la Spd
del cancelliere Schroeder
istituì un mercato del lavoro
di infimo ordine sul quale
i beneficiari del sussidio di disoccupazione
sarebbero stati costretti a vendersi. Nello
stesso tempo sindacati e imprenditori
concordavano una dinamica salariale addomesticata
e decisamente modesta. I
margini di profitto così ottenuti dal contenimento
del costo del lavoro consentivano
di investire in tecnologia e innovazione e
di aumentare quindi la produttività del lavoro,
riducendone ulteriormente il costo.
Marx avrebbe detto che il risparmio di capitale
variabile (il lavoro vivo) si trasformava
in capitale costante (impianti). In conseguenza
le merci tedesche sarebbero diventate
ancora più competitive. Come dimostra
il punto di vista dei «saggi», i capitalisti
tedeschi non hanno alcuna intenzione di
attivare una dinamica salariale, la cui assenza
ha garantito loro enormi profitti e
posizioni di mercato. Neanche se a chiederglielo
è il «capitale complessivo» e cioè
l’Fmi, gli Usa e i paesi europei usciti con le
ossa rotte dalla competizione. Il modello
tedesco ( e non solo quello
) si fonda precisamente sul
fatto che il successo economico
non deve tradursi in
maggiore spesa dei cittadini
e dunque in un elevamento
del tenore di vita,
ma nel rilancio dell’accumulazione
su tutti i piani
possibili. I tedeschi sono
stati costretti a vivere «al di sotto dei propri
mezzi». La Germania, del resto, non fa eccezione
al generale processo di concentrazione
della ricchezza nelle mani di pochi e
di protezione ad ogni costo della rendita finanziaria.
Pensare di poter chiedere una
mano al proprio concorrente è dal punto
di vista del capitalista, una amenità. Pensare
poi di chiederglielo rinunciando a parte
del suo potere di ricatto e di controllo sulla
forza lavoro e sullo sfruttamento della cooperazione
sociale è addirittura una aberrazione.
In bocca ai tecnocrati di Bruxelles la
parola solidarietà suona come una moneta
falsa. L’impasse europea consiste essenzialmente
nel fatto di ricercare un equilibrio
basandosi su una dottrina economica
fondata sullo squilibrio. Illusione condivisa
dal negoziato permanente tra stati sovrani
di diverso peso che caratterizza oggi
la vita stentata dell’Unione.
È difficile immaginare una Commissione
europea che reclami la ripresa della lotta
di classe in Germania. Eppure solo una
forte pressione sociale da parte dei lavoratori
tedeschi, dei precari ultrasfruttati e di
una cittadinanza cui vengono progressivamente
sottratti pezzi di stato sociale potrebbe
conseguire quell’ incremento del
mercato interno nella Repubblica federale
che l’Europa e gli Usa desiderano. Indirettamente,
le critiche che mezzo mondo rivolge
al capitale tedesco e alla sovranità
che lo sostiene al tavolo del negoziato europeo,
potrebbero indurre i cittadini tedeschi
a pretendere finalmente quella vita
«all’altezza dei propri mezzi» che il processo
di accumulazione e il gigantesco apparato
ideologico che lo accompagna ha loro
sottratto fino ad oggi. Come sempre, l’alternativa
è quel nazionalismo che, negando o
soffocando le linee di frattura e i conflitti
che attraversano la società, rivolge all’esterno
la propria aggressività. Che si serva dei
Panzer o del surplus commerciale. Coraggio
compagno Schulz chiami il suo paese
alla lotta di classe!

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