martedì 27 agosto 2013

Truffaldino il servitore di due padroni.

Il nostro è uno strano Paese ricco di cultura e di storia, come terra di conquista  ha sviluppato l'istinto alla sopravvivenza, l'essere stati contesi fra potenze ostili ci ha fatti scettici ed opportunisti, per necessità più che per progetto.
Dopo la guerra ci siamo ritrovati ad essere il marciapiede fra due botteghe contrapposte che sostenevano i rispettivi commessi affinché convincessero i passanti a servirsi di una delle due.
La concorrenza ci ha favorito portandoci, in tre decenni, ad un grado di benessere mai raggiunto, ovviamente nulla era regalato: ogni conquista era per la bottega di fronte una rinuncia, preferibile però al fallimento dell'esercizio.
Nel frattempo l'Europa cambiava: dal confino di Ventotene Rossi e Spinelli (1941-1944) scrissero Il Manifesto per un'Europa libera e unita, poi arrivarono: CECA (1951), EURATOM e CEE (1957), MEC (1968), il serpentone (1972), SME e prime elezione europee (1979), caduta del muro di Berlino (1989), Maastricht (1992), l'euro (1999-2002), Lisbona (2009), MES (2012).
Frattanto le acque si intorbidivano. Piazza Fontana (1969), Gioia Tauro (1970), Peteano (1972), questura di Milano  (1973), Piazza della Loggia e Italicus (1974), Bologna (1980). Nel mezzo ci si misero anche fascisti e brigatisti a mantenere il pentolone in ebollizione.
A mano a mano che aumentava l'integrazione, e scoppiavano i botti, i proclami roboanti si stemperavano in politiche "responsabili", i principi morali irrinunciabili cedevano al realismo. I segnali esplosivi ricordavano perentoriamente che eravamo pur sempre un marciapiede, non una bottega.
Una vetrina s'è infranta al cadere del muro ma la commedia è proseguita.
Da qui in poi una sola bottega: i commessi disoccupati han cercato un nuovo impiego, senza ripudiare il primo: formalmente l'obbiettivo era ancora convincere i passanti promettendo benessere e lavoro, ma dovevano dimostrare ai nuovi padroni di essere affidabili... gli esami non finiscono mai... e da qui in poi i transfughi diventano figure patetiche.
Sarà stata la lunga stagione della pacata responsabilità, gli agi ottenuti lontano dalle rigidità ideali, la scarsa propensione a mettere alla prova il proprio coraggio fisico, insomma l'istinto di sopravvivenza, ma mentre i neofiti blateravano di pace e progresso dissimulando la silenziosa ferocia dell'omologazione, altrove si lavorava lucidamente per azzerare i risultati di lotte che erano il riflesso di ben altri scontri.
Oggi l'Europa è ancora li come continente; l'Unione europea è diventata la matrigna integralista che conosciamo; l'euro la frusta che ci sferza.
Oggi i servitori della nostra storia, quelli che hanno servito due padroni, infiacchiti dai loro privilegi non sanno come dirci che sono stati usati: spaventati dai botti, comprati dalle briciole.
Dobbiamo esprimere una nuova classe dirigente libera da servitù pregresse, che riparta dalla contraddizione fra lavoro e capitale; che risponda a chi la elegge; che non abbia da perdere vantaggi e che ci consenta di riconquistare i nostri diritti; abbiamo ancora una Costituzione; una memoria, alcuni; qualche strumento statale formalmente democratico, sempre meno; abbiamo la possibilità di capire cosa ci hanno fatto; abbiamo sempre più fame.
E' stato possibile una volta, si può rifare, non per ammansirci ma perché è l'unico modo per non finire massacrati.
Il giochino si è rotto.
Capirlo dovrebbe essere dovere e piacere di ogni cittadino. 



sabato 24 agosto 2013

Argentina (cry for me...)

Copio un articolo da manifesto di oggi, l'interesse intorno ai problemi macroeconomici si accentua, purché in polemica con Frenkel e Bagnai...

Un keynesismo forte fa respirare l'Argentina
ARTICOLO - *ROBERTO LAMPA E ALEJANDRO FIORITO

Il Pil si assesta a un +6%, la disoccupazione scende dal 25 al 7%, la distribuzione del reddito è in costante miglioramento. E senza l'arma della svalutazione del peso
Agitata a mo' di spauracchio dai sostenitori ad oltranza dell'austerità targata Unione europea o incensata come paradigma da imitare dal grillismo più radicale, l'Argentina occupa ormai uno spazio indiscusso nel dibattito politico italiano: «Faremo la fine dell'Argentina » o «Bisogna fare come l'Argentina » sono diventati così due aforismi, ricorrenti e perfino abusati, nella discussione sulla crisi economica in corso. Simili giudizi sono finora restati ad un livello d'analisi estremamente superficiale, scontando per di più l'utilizzo di lenti deformanti "primo-mondiste" con le quali sovente si tenta di osservare il complesso, e talvolta contraddittorio, continente latinoamericano, piegandolo alla stringente attualità nostrana. Tuttavia, una volta inquadrato nella sua specificità, il caso argentino può effettivamente contenere alcune indicazioni cruciali per il dibattito sullo stato (comatoso) dell'economia italiana ed europea. Riteniamo utile partire dai freddi numeri. Tra il 2003 ed il 2011, il Pil argentino è cresciuto in media del 7,6% annuale; nel 2012 ha subito un rallentamento attestandosi al +1,9% (complice l'improvvisa crescita zero della "locomotiva regionale" Brasile, ma anche un brusco freno alla spesa pubblica) ed infine quest'anno si va assestando ad un +6%. Vale la pena sottolineare che, come osservato da Mark Weisbrot ed altri, la crescita argentina fino al 2011 è stata la più rapida e corposa del mondo occidentale contemporaneo. Una simile, impetuosa, crescita economica ha ovviamente implicato una forte generazione di posti di lavoro ed una drastica riduzione della disoccupazione, passata dal 25% all'attuale 7,3% nel periodo in esame (con gli ultimi indicatori trimestrali che indicano un'ulteriore contrazione). Ma, cosa ben più interessante, è stata accompagnata da un costante miglioramento della distribuzione dei redditi: l'indice di Gini (il cui alto valore indica un'alta disuguaglianza) si è infatti progressivamente ridotto fino all'attuale 0,372. Un traguardo straordinario, se paragonato al resto della regione latinoamericana: in Brasile l'indice di Gini è addirittura pari a 0,52. Simili risultati sono stati essenzialmente il frutto di una politica economica interventista e fortemente orientata all'espansione della domanda domestica, le cui chiavi sono state la politica fiscale (accompagnata da una politica monetaria accomodante, implementata da una banca centrale non più indipendente ) ed i molti trasferimenti erogati a vantaggio delle classi medio-basse. Inoltre, la tradizionale vicinanza dei governi peronisti alle centrali sindacali argentine ha prodotto una politica salariale che ha permesso ai lavoratori di tenere il passo dell'inflazione: nonostante quest'ultima sia stimata tra il 20 ed il 25%, attualmente la crescita del salario per il 2013 è prevista attorno al 25,3% (con punte del 31,2% nel settore privato), non pregiudicando il potere d'acquisto dei settori popolari. Proprio questa logica ha ispirato l'ostinato rifiuto dei governi Kirchner di svalutare il peso argentino. Non va infatti dimenticato che nei paesi in via di sviluppo gli effetti di una svalutazione sono fortemente regressivi sul piano della distribuzione dei redditi, perché, da un lato, è maggiore la quantità di beni di consumo ed investimento importati e, dall'altro, è più forte il rischio di un effetto trascinamento dei prezzi internazionali sui prezzi domestici. A fugare ogni dubbio, andrebbe sempre ricordato che proprio l'improvvida svalutazione del bolivar a due mesi dalle elezioni è stata all'origine dell'emorragia di voti nei settori popolari che è quasi costata la vittoria a Nicolas Maduro in Venezuela, sebbene questo dettaglio sembra essere sfuggito a molti osservatori del primo mondo. In questo senso, non appare convincente la spiegazione di quegli economisti (ad esempio, Bagnai e Frenkel) che individuano nel tasso di cambio competitivo la chiave della crescita argentina, accettando la tesi ortodossa di Rodrik relativa all'esistenza di una correlazione positiva tra il tasso di cambio e la crescita economica. Negli anni più bui della crisi globale in corso, ad es. il 2010-11, il peso argentino era infatti tornato a livelli di apprezzamento simili a quelli degli anni della convertibilità col dollaro, eppure il Pil argentino raggiungeva i picchi più alti di crescita (+9,2% nel 2010 e +8,9% nel 2011) ed il prodotto industriale cresceva ancora di più (+9,8% nel 2010 e +11,0% nel 2011). Semmai, appare plausibile il contrario: i dati sembrano indicare che la chiave dell'espansione economica argentina risiede nel forte keynesismo che ha ispirato l'azione dei suoi governi, accompagnato da un certo grado di protezionismo e allo sforzo crescente per creare uno spazio di manovra sufficiente per la politica economica, iniziato con il cruciale processo di dis-indebitamento e sganciamento dai prestiti del Fmi, che imponevano draconiane politiche di austerità. In un simile contesto, la svalutazione avrebbe effetti senz'altro regressivi ed opposti a quelli auspicati dalle autorità economiche. Né del resto sarebbero scontati i suoi effetti sui volumi del commercio estero, come ampiamente documentato nella letteratura economica argentina (ad es. Berrettoni e Castresana, 2008). Ovviamente, non vanno sottaciute le difficoltà di questo paese e le sfide che in futuro dovrà affrontare. In particolare, va rilevato che almeno una parte della nefasta eredità neoliberale degli anni '90 è ancora presente, sotto forma di un'eccessiva dipendenza dell'economia nazionale dalle importazioni e dal capitale transnazionale, specie nei settori chiave dei beni di equipaggiamento durevoli e dell'energia: tra il 2003 ed il 2011, le importazioni sono cresciute in media del 16,6% annuale mentre le esportazioni soltanto del 6,3% annuale. Ciò ha determinato un deficit nelle partite correnti, accompagnato però da un saldo delle merci ampiamente positivo. Più che evidenziare un problema di competitività, ciò è potenzialmente in grado di riprodurre un paradosso, in passato noto come ciclo di stop and go : la forte crescita del Pil innesca un'impennata delle importazioni (maggiore della crescita delle esportazioni) che genera un crescente disequilibrio di conto corrente della bilancia dei pagamenti. Per arrestare questo fenomeno si ricorre a una svalutazione, che, dato il contesto di crescita, fa schizzare l'inflazione fuori controllo, peggiora la distribuzione, raffredda l'economia e annulla gli effetti della crescita economica precedente, condannando il paese a un perenne sottosviluppo. Così come non va dimenticata l'assenza di statistiche attendibili sull'inflazione ed una certa timidezza del governo nazionale nel prendere atto delle origini di natura distributiva di questo fenomeno (che si è manifestato con forza a partire dal 2009, anno in cui il salario reale è tornato ai livelli precedenti la crisi e non è invece dovuto all'eccesso di spesa pubblica, come ad esempio argomentano Frenkel e Bagnai) e ad intervenire con un'adeguata politica dei redditi e di controllo dei capitali. Pur tuttavia, ciò che a nostro avviso merita di essere evidenziato è che mentre l'Unione europea annaspa ostaggio del pensiero economico ortodosso e delle ricette neo-liberali propugnate dalle istituzioni internazionali, proprio il Keynes meno addomesticato e l'eterodossia economica strutturalista hanno invece trovato ospitalità nei palazzi di governo dell'economia argentina. Basti ricordare, a mo' di esempio, il recente obbligo per le banche e le assicurazioni di destinare il 5% dei depositi ad investimenti produttivi in settori strategici stabiliti dal Sottosegretariato alla Pianificazione (!): ciò che in Italia farebbe gridare al regime bolscevico, sembra ancora in grado di garantire all'Argentina una crescita economica di tutto rispetto, nonostante la pessima congiuntura internazionale ed alcuni nodi irrisolti. Se ne accorgeranno il governo e gli addetti ai lavori italiani? *Roberto Lampa (Universidad de Buenos Aires) e Alejandro Fiorito (Universidad Nacional de Lujan)

mercoledì 21 agosto 2013

Il massacro continua.

Stralcio di un articolo di Patrizio Gonnella di Antigone:

Tra l’1 agosto 2012 e il 31 luglio 2013 le persone decedute
a seguito di un incidente stradale sono
state 1.987. Le persone assassinate volontariamente
nello stesso arco di tempo nel nostro
Paese sono state 505. Un dato basso rispetto
alla media europea. Nella sola città di
New York nel 2012 gli omicidi sono stati 414,
anch’essi a loro volta talmente pochi rispetto
alla tradizione newyorkese da far esultare il
sindaco Bloomberg. Si pensi che nella città
americana gli omicidi nel 2009 erano stati
ben 1.420. In Italia quindi si muore molto di
più per incidente stradale che non per omicidio.
I dati forniti dal Viminale segnano il minimo
storico di omicidi da oltre quarant’anni a
questa parte. Se oggi gli omicidi volontari sono
poco più di 500 l’anno, va rammentato
che sono stati 2.927 nel 1948, 2.380 nel 1951,
1.610 nel 1.961, 1.497 nel 1.971, 2.453 nel
1.981, 1.901 nel 1.991 e 771 nel 2001. 102 sono
stati gli omicidi commessi in ambito familiare.
65 di questi sono stati compiuti dal partner
o dall’ex partner. I restanti 37 sono stati
commessi da altro familiare.
Complessivamente 75 sono stati i cosiddetti
femminicidi. Secondo i dati Eures sarebbe
un numero, anche questo, tra i più bassi di
Europa.

C'è un'evidente divergenza fra i fatti, drammatici, e il rilievo che i media e la politica ne danno.
Il governo sa benissimo che i suoi provvedimenti non servono a nulla per combattere la crisi, questa non è altro che un gigantesco trasferimento di ricchezza dal lavoro al profitto, che ha accettato di realizzare per conto del potere finanziario. L'esecutivo sembra dibattersi stretto da un inestricabile nodo gordiano, in pratica la rotta è tracciata ed accettata, non resta che agitare lo spauracchio di turno: allo scopo servono i femminicidi, l'aviaria, la mucca pazza, gli zingari e i rumeni. E' una tecnica consolidata, descritta da Naomi Klein nel suo -Shock economy-.
In pratica, se vuoi ottenere dal pubblico (non dai cittadini che dovrebbero essere consapevoli) cose impopolari, prima deve essere adeguatamente spaventato, allarmato, confuso. In tal modo accoglierà le misure di chi comanda come dei rimedi sicuri e non si accorgerà de essere stati raggirato.
Potrebbe essere che il piano sia proprio questo: portare la situazione ad un punto tale che il popolo consumatore, percosso ed attonito, invochi l'uomo della provvidenza, l'Alessandro di turno, che recida il nodo... insieme a quel che resta delle nostre democrazia, Costituzione, sovranità.

lunedì 19 agosto 2013

Egitto, libro e moschetto.

C'è maretta a sinistra circa la posizione da prendere sui recenti fatti egiziani.
Da una parte quelli che difendono Morsi perché ha vinto le elezioni, benché con una minoranza di elettori; dall'altra quelli che, ostili al potere religioso, plaudono all'intervento dell'esercito.
Quando fra due posizioni di destra: da una parte il Libro dall'altra il moschetto, si aprono accese contese su quale sia quella giusta, significa che la sinistra ha cessato la sua funzione propulsiva (dove l'ho già sentita?).
Vuol dire che ha smarrito la bussola creatrice di senso, del senso di marcia. Vuol dire che s'è impaniata girando su se stessa.
Oppure, semplicemente, questa non è più sinistra. 

sabato 17 agosto 2013

Revelli

Com'è che anche quelli bravi non si accorgono della dimensione del problema?
A commento di un articolo apparso sul manifesto .

Revelli incolpa i dirigenti dei due maggiori partiti di governo  del disastro in cui ci troviamo. Analisi ovvia e solo più articolata ed elegante dell'invettiva contro la casta di Grillo. Naturalmente ha ragione, ma tacere una parte della verità è come mentire. In lui non vedo il quadro d'insieme: critica i piloti e non si accorge che la rotta l'hanno fissata altri. Sono disponibili decine di studi che illustrano i parametri economici dei paesi europei e TUTTI ci dicono che è quest'Europa eurocentrica che non funziona. Non per ignavia o disonestà dei governanti; ma perché una gigantesca lotta di classe, che la sinistra sta perdendo finché non ne prenderà atto, imperversa in Eurozona; essa è stata pianificata e realizzata dalle élite finanziarie, subita o accettata, con controparte, dai nostri, come dagli altri, politici. Sta distruggendo la base democratica della convivenza di un continente. A fronte di tale disastro, occuparsi dei problemi del Dott. Berlusconi è come preoccuparsi di un callo quando si ha una gamba rotta. Passiamo oltre: l'Eurozona non è riformabile, i Paesi core non lo possono permettere, ma la fine dei Paesi periferici trascinerà anche loro nel disastro (le esportazioni tedesche sono per il 50% verso l'Unione europea). Quindi Revelli guardi oltre: la questione non è Renzi vs Letta, infima, ma quella, determinante, Costituzione vs Trattati europei. mf

mercoledì 14 agosto 2013

Il manifesto, ancora lui.

Nell'ultimo post preannunciavo che la mia lettera a commento di un articolo di Marco Rovelli non sarebbe stata pubblicata, mi sbagliavo.
La cosa mi rallegra, ma non è vanità: forse qualcosa sta cambiando nella linea del giornale. Come al solito, necessita una premessa.
Nel luglio dell'anno scorso, stanco per una posizione reticente se non fuorviante sulle cause della crisi, in occasione di un articolo di Burgio, mandai la lettera che ricopio:

  "Caro manifesto, sono abbonato da anni, piccolissimo azionista e lettore dall'inizio. Ultimamente però mi ritrovo sempre meno nel giornale: in pratica gli strumenti per capire il momento drammatico, ma prevedibile, in cui viviamo li ho trovati altrove. La nostra vulnerabilità in questa crisi dipende dalle scelte deliberate di chi ci ha ficcato, tacendocene i rischi, in un puzzle europeo in cui tutte le tessere devono essere uguali, e per chi ha qualche spigolo irriducibile ci sono le cesoie. Non mi appassiona il sogno vendoliano, non mi entusiasma la saga valsusina, non mi coinvolgono le meditazioni bertinottiane; in tutto ciò c'è un sottofondo sottaciuto: il nemico è quest'€uropa, da (quasi) tutti promossa e promessa come panacea, anche da chi dovrebbe difendere i miei interessi e non acconciarsi a quelli di un capitalismo ferocemente cieco.
L'articolo odierno di Burgio qualcosa dice ma gli anni bui del cavaliere sono stati possibili anche grazie all'abbassamento della guardia e dell'intransigenza di una sinistra famelica e amorale.
Comprendo le difficolta pratiche che limitano le vostre possibilità di approfondimento ed analisi ma sento che c'è altro: una sorta di sudditanza verso chi ha il potere di vita o di morte economica. O chiamiamolo ricatto, fuori dai denti. La storia ha strangolato altri fogli (Lotta Continua, Il QdL, Liberazione), siete rimasti solo voi ma non mi state dando, da troppo tempo, ciò che mi serve.
Oggi, da pensionato, privarmi di una cifra per me considerevole per difendere una trincea affettiva più che effettiva, mi pesa e anche voi, per il vostro passato, non meritereste di comparire nella voce -aiuti- anzichè in quella -investimenti- ma tant'è.
Abbiamo tempo sei mesi per decidere se continuare o smettere, vi auguro di ritrovare l'incisività e l'acutezza di altre stagioni, io spero di potermi ricredere, buon lavoro. m f"


L'incisività e l'acutezza non sono state trovate, nel frattempo il manifesto fece campagna elettorale per una salvifica SEL che non salvò il PD da una vittoria ingloriosa.
In questo anno qualche articolo di tema economico è stato pubblicato ed io ho mandato le mie letteracce sempre più spazientite per l'apparente stolidità delle posizioni. Ultimamente però qualcosa di più interessante si trova, recente esempio un anticipo da le Monde Diplomatique. Significa che anche in via Bargoni si comincia a pensare che l'euro sia la forma odierna della lotta di classe, che stiamo perdendo, in Europa? Se così fosse me ne rallegro e rimengo sintonizzato per misurare con quanto ritardo cambia la rotta al ruotare del timone (scogli in vista!).

 

lunedì 12 agosto 2013

Articolo di Marco Rovelli sul manifesto del 10-08-2013. Segue mia lettera al manifesto, che non pubblicheranno...

"SE NON ORA MAI PIU'

È giunto il momento di creare un nuovo soggetto politico, reticolare e libertario, che riparta dai movimenti e metta al centro dell’azione i beni comuni e i diritti.

Da mesi mi chiedo come sia possibile che nessuno, in questo frangente, prenda l’iniziativa per ricostruire
una sinistra che non c’è. Nelle ultime due settimane ho letto con piacere una serie di interventi che sembrano preannunciare la ripresa di un’iniziativa. Ma adesso occorre agire. Che cosa stiamo aspettando? Siamo in
una crisi radicale, senza più alcuna rappresentanza, con milioni di persone che non si riconoscono più in nulla e in nessuno, che hanno fame di una prospettiva altra da quella che ogni giorno abbiamo davanti agli occhi e sottopelle. E invece stiamo qui a baloccarci con le armi sterili della critica senza passare, non dico alla critica delle armi letteralmente intese, ma a quella forza materiale che sola può abbattere la forza materiale. Lo scorso anno ero stato coinvolto nell’esperienza di Cambiare si può, e avevo raccolto l’appello con entusiasmo, vedendolo come un’opportunità per ridar vita dalle fondamenta a un aggregato di forze e movimenti in forme inedite e all’altezza delle sfide presenti. Quell’esperienza venne suicidata, dalla famelica voracità dei partiti che credevano di salvarsi con l’accozzaglia verticistica della lista Ingroia, che venne, provvidenzialmente e giustamente, punita. Cambiare si può era nata troppo a ridosso delle elezioni per poter efficacemente svolgere un processo costituente e reggere l’impatto delle macchine partitiche che decisero, prima ancora dell’assemblea del 22 dicembre di Roma, in disprezzo di qualsiasi decantato e incantatorio meccanismo dal basso, di prendere il controllo e spartirsi le candidature. Ma adesso il tempo ci sarebbe. Abbiamo praterie sconfinate da solcare, e sono un’opportunità epocale. Solo che se manca l’iniziativa, quelle praterie non sono che uno sterile deserto. Ci sono milioni di persone, in questo momento, che hanno fame, e bisogno, di un nuovo soggetto politico, ma nuovo davvero, che sappia mettere in rete le loro istanze di politica. E hanno fame e bisogno di un soggetto di sinistra (se è vero che sinistra è un
concetto inestricabile da, e fondativo della, società moderna: dove sinistra – se andiamo a fare archeologia del concetto all’altezza della Rivoluzione francese - significa fondamentalmente universalità dei diritti e uguaglianza non solo formale ma anche sostanziale), ma appunto una sinistra da ripensare radicalmente: i soggetti politici tradizionali sono defunti, e ogni accanimento terapeutico non servirà, sarà anzi il prolungamento di un’agonia. Per l’epoca nuova, come già scrissi a suo tempo, è necessario un soggetto aperto, dal basso, che si confronti con le istanze della democrazia diretta, che sia strumento della democrazia
partecipativa, di una diffusa partecipazione dal basso. Un’esperienza che riparta dalla realtà dei movimenti, superando l’equivoco della "società civile" (presa in una fondativa complementarità con lo Stato) come luogo della salvezza contro la politica come luogo della corruzione: superare, insomma, il divario abissale tra rappresentanti e rappresentati. Ciò che, per quanto affrettatamente e magari confusamente, Cambiare si può proponeva non era – come venne invece a volte inteso dai militanti dei partiti - contrapporre i rappresentanti di una fantomatica società civile intesa come non-partitica ai militanti dei partiti. Era, piuttosto, introdurre un nuovo concetto, indispensabile per attuare una vera democrazia partecipativa: quello delle storie personali, delle biografie. Chi può e deve rappresentare le istanze politiche dei territori se non coloro che dei processi in corso nei territori stessi sono l’espressione diretta? E qui non c’entra la tessera di partito o l’adesione a un’associazione. C’entra la qualità della persona, il suo essere espressione reale, e non solo ideale, di realissime dinamiche, processi, lotte, conflitti. Non si tratta di chiedersi che tessera ha in tasca qualcuno, ma chi/che cosa rappresenta, quale istanza/bisogno del territorio, con quale lotta è in connessione e di quale processo si fa portatore… In questo senso, allora, saranno le biografie, le storie personali, a diventare la carta d’identità complessiva del movimento, fuori da ogni leaderismo e verticismo. Solo a partire da qui si può realizzare la democrazia partecipativa. È necessario un soggetto reticolare e non identitario, fondato sulle pratiche, dove – per detournare Marx – il fare preceda l’essere. Finale di partito, dice come è noto Marco Revelli. Dire "partito" significa dire un soggetto finalizzato al momento elettorale e all’occupazione delle cariche pubbliche dei suoi militanti (si confronti la classica definizione di Anthony Downs: «Una compagine
di persone che cercano di ottenere il controllo dell’apparato governativo a seguito di regolari elezioni»). Oggi bisogna rovesciare questa piramide, e ridare vita, di fatto, a una pratica libertaria: una pratica reticolare, dove è la partecipazione dal basso a dar forma al movimento e non viceversa, dove le dinamiche del movimento (nonché il suo "personale politico") siano l’espressione dei processi reali del territorio. Un movimento che non sia finalizzato al momento elettorale, ma dove esso sia uno dei momenti di un processo più ampio di risocializzazione del territorio, dei territori, anche dal punto di vista di quella che Ulrich Beck chiama «subpolitica». L’esperienza del movimento No Tav, io credo, ci sta davanti a segnare una strada, a tracciare un cammino. Il movimento No-Tav non è una bandierina da sventolare, ma un movimento inclusivo da praticare. Insomma, si tratta di procedere a una vera e propria rivoluzione copernicana. Solo così può rinascere un soggetto collettivo che sappia mettere al centro del discorso politico il tema dei beni comuni, che ripensi un nuovo legame sociale basato senza tentennamenti sull’inclusione e sull’universalità dei diritti, che sappia contrastare l’ideologia e la pratica dei poteri forti globali, quell’intreccio inestricabile tra classe politica, finanziaria ed economica che costituisce il nerbo del finanzcapitalismo. C’è bisogno dunque di un soggetto che comprenda il trapasso epocale che c’è stato: il resto è sopravvivenza post-mortem. Tutto questo è necessario farlo subito, adesso. Io chiedo a tutte e tutti coloro che erano in Cambiare si può, a tutte e tutti coloro che si sentono e sono parte attiva della sinistra sociale, dei movimenti: che cosa stiamo aspettando? Vogliamo o no ripartire? Vogliamo restare a guardare la catastrofe che si sta compiendo sotto ai nostri occhi? Vogliamo restare alla finestra aspettando che passi il cadavere del nemico, quando invece i cadaveri che passeranno saranno quelli maciullati dal rullo compressore del finanzcapitalismo? Davvero la nostra delusione e il nostro scoramento sono arrivati a livelli così insopportabili?

Leggo con partecipazione il grido di dolore di Marco Rovelli. Seguo il suo consiglio e provo a pensare in cosa potrei essere utile, dopo una vita di militanza a sinistra, ad una nuova sinistra. Cosa hanno fatto i partiti eredi della tradizione operaia per gli operai in senso lato di oggi? Hanno tenuto in piedi una tradizione, una liturgia, delle parole d'ordine legate ad una realtà eroica del passato, ma utili oggi? Sono convinto che il momento attuale sia una novità non leggibile solo attraverso l'esperienza del passato, certo il capitale è sempre il capitale e i salariati sempre i salariati pur nelle diverse declinazioni delle nomenclature. Oggi l'esproprio di democrazia, sovranità popolare, autodeterminazione si fonda su un unico assioma: lo vuole l'Europa, a questo moloch abbiamo delegato il nostro futuro e i mezzi per governarlo. La sinistra moderata ha visto nell'occupazione dello stato l'unica leva per mitigare lo strapotere del capitale facendosene il servitore moderato, quella radicale ha visto nell'internazionalismo dei subalterni la trincea per contrastare il capitale sovranazionale. Con quale risultato? Nulla! Per far franare la prigione che ci opprime si deve rimuoverne la chiave di volta: la moneta unica, che è un metodo di governo e l'unica cosa che tenga per ora unito questo guazzabuglio di sfruttamento, menzogne, velleità, opportunismo e stupidità che ci vincola. Basta studiarsi un po' di economia, non i modaioli televisivi, ma quei Nobel che decenni fa sapevano ed ora sono stati rimossi. Io lo so, mi guardo intorno e vedo qualche isolato consapevole diviso fra lo sconforto e l'indignazione, il resto è "praterie sconfinate da solcare", praterie popolate da inconsapevoli ignoranti coccolati amorevolmente nella loro ignoranza dalla taroccata informazione mainstream. In sintesi, Marco Rovelli ne capisce di macroeconomia?
m. f.

venerdì 9 agosto 2013

Il Fondo monetario suggerisce al governo spagnolo di ridurre i salari del 10%, così facendo, dice, si favorirebbe l'occupazione.
In un periodo di recessione, quale stiamo vivendo, l'economia ristagna non perché manchino le merci, ma perché mancano i soldi per comprarle, se abbassiamo ulteriormente il monte salari la situazione peggiora,.
Ovviamente qualcuno che ci guadagna c'è: l'industria nazionale prevalentemente esportatrice ne avrebbe un vantaggio, ed anche il settore turistico potrebbe offrire prezzi ridotti. I colpiti sarebbero solo i lavoratori.
La prospettiva continua ad essere quella di sacrificare chi lavora per mantenere competitiva una macchina economica a misura di capitale.
Questo sistema ha una razionalità senza ragione: una miriade di operatori economici perfettamente razionali, ammesso che esistano, non fanno un sistema razionale. Se fra le variabili non si mettono anche i bisogni umani e i diritti sociali, di regressione in regressione ritorneremo alla schiavitù.
Anzi, per alcuni aspetti la schiavitù era meglio: il padrone non aveva interesse a eliminare il suo capitale umano, se non gli serviva poteva venderlo ma doveva mantenerlo in buono stato, non gettarlo fuori dalla produzione come si fa oggi con gli "esuberi".

mercoledì 7 agosto 2013

Parole senza significato

Parole che hanno smarrito il significato.
Cosa vuol dire oggi esere di sinistra? Originariamente significava stare dalla parte di chi vende il suo lavoro e contro chi questo lavoro lo compra.
Ma oggi?
Premessa: ci è rimasto solo un foglio alternativo, il quotidiano comunista (così recita la testatina tuttora presente). Ha appoggiato Bersani in modo imbarazzante, si è appiattito su Vendola che manco il thermogène, si è votato ai destini dell'eurozona che nemmeno un integralista. Da almeno due anni c'è chi gli va dicendo che hanno sbagliato film e cinema ma loro duri: l'Europa è il futuro irrinunciabile, ed hanno ragione, peccato che abbiano confuso Europa con Unione europea con Euro.
Da qualche mese vanno ospitando delle voci critiche, la tecnica del cerchio e della botte probabilmente. Il flop del PD e la riproposizione in salsa Alf-letta di Monti e la sua gelida manina ha forse fatto suonare qualche allarme.
L'ultimo contributo fuori dal coro viene dalla Francia: dopo una premessa condivisibile, propone una soluzione che andrebbe discussa. La contraddizione insanabile è che bisognerebbe applicarla CON la Germania che, come premesso, non ha nessuna intenzione di rinunciare ai vantaggi della moneta unica.
Conclusione?
Il giornale il giorno dopo serve ad incartare il pesce (Pintor).
Forse anche il giorno prima.
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Una moneta comune per uscire dall'euro
ARTICOLO - Frédéric Lordon

Già oggi in Europa le stesse banconote non hanno più lo stesso valore che hanno in Grecia o in Germania. È cominciata forse l'esplosione della moneta unica? Di fronte a uno scenario di caos è possibile costruire un'uscita dall'euro concertata e ben organizzata
Molti, specialmente a sinistra, continuano a credere che l'euro verrà modificato. Che passeremo dall'attuale euro austeritario a un euro finalmente rinnovato, progressista e sociale. Questo non succederà. Basta pensare all'assenza di qualsiasi leva politica nell'attuale immobilismo dell'unione monetaria europea per farsene una prima ragione. Ma questa impossibilità poggia soprattutto su un argomento molto più forte, che può essere espresso con un sillogismo.
Premessa maggiore: l'attuale euro è il risultato di una costruzione che, anche intenzionalmente, ha avuto come effetto quello di dare tutte le soddisfazioni possibili ai mercati dei capitali e strutturare la loro ingerenza sulle politiche economiche europee. Premessa minore: qualsiasi progetto di trasformazione significativa dell'euro è ipso facto un progetto di smantellamento del potere dei mercati finanziari e di espulsione degli investitori internazionali dal campo dell'elaborazione delle politiche pubbliche. Ergo, conclusioni: 1) i mercati non lasceranno mai che si concepisca, sotto i loro occhi, un progetto la cui finalità evidente è quella di sottrarre loro il potere disciplinare; 2) appena un siffatto progetto cominciasse ad acquisire un briciolo di consistenza politica e qualche probabilità di essere attuato, si scatenerebbero una speculazione e una crisi di mercato acuta che non lascerebbero il tempo di istituzionalizzare una costruzione monetaria alternativa, e il solo esito possibile, a caldo, sarebbe il ritorno alle monete nazionali.
A quella sinistra «che ancora ci crede», non resta che scegliere tra l'impotenza indefinita... oppure l'avvento di quel che pretende di voler evitare (il ritorno alle monete nazionali), non appena il suo progetto di trasformazione dell'euro cominciasse a esser preso sul serio! Bisogna poi chiarire cosa intendiamo in questa sede per «la sinistra»: certamente non il Partito socialista (Ps) in Francia, che oramai con la sinistra intrattiene esclusivamente rapporti di inerzia nominale, né la massa indifferenziata degli europeisti, che, silenziosa o beata per due decenni, scopre solo ora le tare del suo oggetto prediletto e realizza, con sgomento, che potrebbe andare in frantumi. Ma un così lungo periodo di beato torpore intellettuale non si recupera in un batter d'occhio. E così, la corsa alle ancore di salvezza è cominciata con la dolcezza di un risveglio in piena notte, in un miscuglio di leggero panico e totale impreparazione.
Contro la moneta unica
In verità, le scarne idee a cui l'europeismo aggrappa le sue ultime speranze sono diventate parole vuote: titoli di stato europeo (o eurobond), «governo economico», o ancora meglio il «balzo in avanti democratico» di François Hollande - Angela Merkel, sentiamo fin da qui l'inno alla gioia -, soluzioni deboli per un pensiero degno della corazzata Potëmkin che, non avendo mai voluto approfondire nulla, rischia di non capire mai niente. Può darsi, d'altronde, che si tratti non tanto di comprendere quanto di ammettere. Ammettere finalmente la singolarità della costruzione europea, che è stata una gigantesca operazione di sottrazione politica.
Ma cosa c'era da sottrarre esattamente? Né più né meno che la sovranità popolare. La sinistra di destra, diventata come per caso europeista forsennata, si riconosce, tra l'altro, per come le si drizzano i capelli in testa quando sente la parola sovranità, immediatamente ridotta a «ismo»: sovranismo. La cosa strana è che a questa «sinistra qua» non viene in mente neanche per un attimo che «sovranità», intesa innanzi tutto come sovranità del popolo, è semplicemente un altro termine per indicare la democrazia stessa. Non è che, dicendo «democrazia» queste persone hanno tutt'altra cosa in testa?
In una sorta di confessione involontaria, in ogni caso, il rifiuto della sovranità equivale a un rifiuto della democrazia in Europa. Il «ripiegamento nazionale» diventa allora lo spauracchio destinato a far dimenticare questa piccola mancanza. Si fa un gran clamore per un Front national al 25%, ma senza mai chiedersi se questa percentuale - che in effetti è allarmante! - non ha per caso qualcosa a che fare, addirittura molto a che fare, con la distruzione della sovranità, non intesa come esaltazione mistica della nazione, ma come capacità dei popoli di determinare il loro destino.
Cosa resta infatti di questa capacità in una costruzione che ha scelto deliberatamente di neutralizzare, per via costituzionale, le politiche economiche - di bilancio e monetarie - sottomettendole a delle regole di condotta automatica iscritte nei trattati? I difensori del «sì» al Trattato costituzionale europeo (Tce) del 2005 avevano finto di non vedere che l'argomento principale del «no» risiedeva nella parte III, certo acquisita dopo Maastricht (1992), Amsterdam (1997) e Nizza (2001), ma che ripeteva attraverso tutte queste conferme, lo scandalo intrinseco della sottrazione delle politiche pubbliche al criterio fondamentale della democrazia: l'esigenza di rimessa in gioco e di reversibilità permanenti.
Perché non c'è più niente da rimettere in gioco, neanche da rimettere in discussione, quando si è scelto di scrivere tutto e una volta per tutte in dei trattati inamovibili. Politica monetaria, uso dello strumento budgetario, livello di indebitamento pubblico, forme di finanziamento del deficit: tutte queste leve fondamentali sono state scolpite nel marmo.
Come si potrebbe discutere del livello di inflazione desiderato quando quest'ultimo è stato affidato a una Banca centrale indipendente e tagliata fuori da tutto? Come si potrebbe decidere una politica budgetaria quando il suo saldo strutturale è predeterminato («pareggio di bilancio») ed è fissato un tetto per il suo saldo corrente? Come decidere se ripudiare un debito quando gli Stati possono finanziarsi solo sui mercati di capitali?
Lungi dal fornire la benché minima risposta a queste domande, anzi, con l'approvazione implicita che danno a questo stato di cose costituzionale, le trovate da concorso per le migliori invenzioni europeiste sono votate a passare sistematicamente accanto al nocciolo del problema.
La bolla di sapone
Ci si domanda così quale senso potrebbe avere l'idea di «governo economico» dell'eurozona, questa bolla di sapone, che il Ps propone, quando non c'è proprio più niente da governare, dal momento che tutta la materia governabile è stata sottratta a qualsiasi processo decisionale per essere blindata in dei trattati.
(...)
Come semplice esercizio intellettuale, ammettiamo pure l'ipotesi di una democrazia federale europea in piena regola, con un potere legislativo europeo degno di questo nome, ovviamente bicamerale, dotato di tutte le sue prerogative, eletto a suffragio universale, come l'esecutivo europeo (di cui comunque non si prevede quale forma potrebbe prendere). La domanda che si porrebbe a tutti coloro che sognano così di «cambiare l'Europa per superare la crisi» sarebbe la seguente: riescono a immaginare la Germania che si piega alla legge della maggioranza europea se per caso il Parlamento sovrano decidesse di riprendere in mano la Banca centrale, di rendere possibile un finanziamento monetario degli Stati o il superamento del tetto del deficit di bilancio?
Dato il carattere generale dell'argomento, aggiungeremo che la risposta - ovviamente negativa - sarebbe la stessa, in questo caso lo speriamo!, se questa stessa legge della maggioranza europea imponesse alla Francia la privatizzazione integrale della Sicurezza sociale. A proposito, chissà come avrebbero reagito gli altri paesi se la Francia avesse imposto all'Europa la propria forma di protezione sociale, come la Germania ha fatto con l'ordine monetario, e se, come quest'ultima, ne avesse fatto una condizione imprescindibile...
Bisognerà dunque che gli architetti del federalismo finiscano per accorgersi che le istituzioni formali della democrazia non esauriscono affatto il concetto, e che non c'è democrazia vivente, né possibile, senza uno sfondo di sentimenti collettivi, unico capace di far acconsentire le minoranze alla legge della maggioranza; poiché in fin dei conti, la democrazia è questo: la deliberazione più la legge della maggioranza. Ma questo è proprio il genere di cose che gli alti funzionari - o gli economisti - sprovvisti di qualsiasi cultura politica, e che però formano l'essenziale della rappresentanza politica nazionale ed europea, sono incapaci di vedere. Questa povertà intellettuale ci porta regolarmente ad avere questi mostri istituzionali che ignorano il principio di sovranità, e il «balzo in avanti democratico» si annuncia già incapace di comprendere come questo comune sentire democratico sia una condizione essenziale e di come sia difficile soddisfarla in un contesto plurinazionale.
Il controllo dei capitali
Una volta ricordato che il ritorno alle monete nazionali permetterebbe di soddisfare questa condizione, ed è tecnicamente praticabile, basta che sia accompagnato da alcune semplici misure ad hoc (in particolare il controllo sui capitali) e saremo in grado di non abbandonare completamente l'idea di fare qualcosa in Europa.
Non una moneta unica, poiché questa presuppone una costruzione politica autentica, per il momento fuori dalla nostra portata. Ma una moneta comune, questo sarebbe fattibile! Tanto più che gli argomenti validi a sostegno di una forma di europeizzazione restano, a patto ovviamente che gli inconvenienti non superino i vantaggi...
L'equilibrio si ritrova se, invece di una moneta unica, si pensa a una moneta comune, ossia un euro dotato di rappresentanti nazionali: degli euro-franchi, delle euro-pesetas, ecc. Immaginiamo questo nuovo contesto in cui le denominazioni nazionali dell'euro non sono direttamente convertibili verso l'esterno (in dollari, yuan, ecc.) né tra loro. Tutte le convertibilità, esterne e interne, passano per una nuova Banca centrale europea, che funge in qualche modo da ufficio cambi, ma è privata di ogni potere di politica monetaria. Quest'ultimo è restituito a delle banche centrali nazionali e saranno i governi a decidere se riprendere il controllo su di esse o meno.
La convertibilità esterna, riservata all'euro, si effettua classicamente sui mercati di cambio internazionali, quindi a tassi fluttuanti, ma attraverso la Banca centrale europea (Bce), che è il solo organismo delegato per conto degli agenti (pubblici e privati) europei. Di contro, la convertibilità interna, quella dei rappresentanti nazionali dell'euro tra loro, si effettua solo allo sportello della Bce, e a delle parità fisse, decise a livello politico.
Ci sbarazziamo così dei mercati di cambio intraeuropei, che erano il focolaio di crisi monetarie ricorrenti all'epoca del Sistema monetario europeo, e al tempo stesso siamo protetti dai mercati di cambio extraeuropei per l'intermediario del nuovo euro. E' questa doppia caratteristica che fa la forza della moneta comune.
* L'economista Frédéric Lordon è autore di «La crise de trop. Reconstruction d'un monde failli», Fayard, 2009.
Traduzione di Francesca Rodriguez, copyright Le Monde diplomatique /il manifesto

lunedì 5 agosto 2013

Soldati

Soldati (Ungaretti, 1918)

Si sta come
d'autunno
sugli alberi
le foglie

Allora era piombo o acciaio: era la guerra.

Oggi?
Stessa precarietà, meno sangue, stesse vittime.

La guerra odierna è quella che il capitale sovranazionale (è la globalizzazione,bellezza!) sta facendo alla biosfera. Noi viviamo nelle nostre città e campagne, ci siamo radunati in popoli, ci siamo dati regole, parlamenti, presidenti; per convivere o conquistare, a volte soccombere; la nostra categoria normativa è la nazione: il guscio che ci comprende.
Tutto questo è finito: il capitale, che una volta usava lo stato come campo di lotta contro altri capitali e contro di noi, ora gioca su tutti i campi contemporaneamente. Ecco perché le Costituzioni sono vincoli, i governi orpelli, i diritti sociali diventano ricordi mentre si discute di quelli civili, tanto non costan nulla!
Che importa se il No Cav va o resta, se il Lettino campa o si estingue: Napo II sta traghettando un feretro vuoto (lo Stato) nello spazio vuoto del mercato globale.
Questi geni della finanza non hanno capito che quando avranno conquistato il mondo fino all'ultima briciola commerciabile, ma non ci sarà nessuno in grado di comprarla, saremo tutti estinti, ANCHE LORO.
A meno che non abbiano progettato un mondo chiuso per poche migliaia di api regine, coi loro alveari di servitori, e tutti gli altri si fottano.

Siano maledetti!
Che la loro maledizione sia la nostra consapevolezza, da cui esploda una disperata voglia di sopravvivere.

Si chiama lotta di classe, ricorda qualcosa??