Ieri
sera in un bar del paese c'erano in programma vecchie canzoni
milanesi cantasuonate da un ex compaesano.
Il
pubblico era progressista-chic. Eravamo in pochi a conoscere parole e
musica: Della Mea, Gaber e Jannacci, da ragazzo li ascoltavo, erano gli anni '60. Canzoni
che parlano di disperati, delinquenti o meno non ha importanza: chi è
povero non ha speranza.
Oggi sembra archeologia
ma non lo è: basta sostituire il dialetto lombardo con qualche
lingua esotica e i derelitti, delinquenti o meno, sono gli stessi...
chissà se chi ascoltava avrà colto il nesso...
Poi
l'interprete è passato a cose più note, un paio di Guccini
d'annata: La locomotiva e Un vecchio e un bambino.
Qui le
strofe ruffiane hanno preso il sopravvento; gli ultracinquantenni
presenti intonavano commossi le note parole, musica in consonanza
con le amate emozioni: la ribellione verbale, il gesto eclatante, il
presente angusto, la rivincita ideale, il passato perduto.
Questa
è stata la messa laica. La riproposizione rituale dei miti fondanti,
per ritrovare insieme i se stessi di allora... aspettando Cristo la
tigre?
I miei
coetanei vivono un'inconsapevole sdoppiamento: si commuovono ai sogni
del passato e vivono oggi in un inganno onirico; quei miti sono
consolazioni, non programmi. Eppure non è impossibile accorgersi
delle contraddizioni fra quel che gli dicono e quel che gli tocca
vivere, basterebbe non cercare la risposta nel come credevamo di
essere.
Le
informazioni necessarie sono disponibili, alcune gliele ho suggerite
io. Ma incatenati alle domande di allora cercano oggi risposte
impossibili.
Sono
convinti che, visto che allora si collocavano in qualche partito
progressista, oggi quel partito, o un suo erede, sia ancora
progressista.
Senza
saper usare gli strumenti per discernere il grano dal loglio sono
inchiodati ad una memoria fallace.